Il diario di Friederike Brun nell’ultimo lavoro di Federico Guida - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Il diario di Friederike Brun nell’ultimo lavoro di Federico Guida

Il diario di Friederike Brun nell’ultimo lavoro di Federico Guida

di Vito Pinto

Non vi è periodo della storia dell’uomo in cui le strade d’Italia non siano state percorse da mercanti, artisti, studiosi, pellegrini, predicatori oltre che da conquistatori, banditi, avventurieri e nullafacenti. Una schiera ininterrotta di umanità che veniva, in ordine sparso, nelle italiche contrade per conoscere il gusto della grecità, il sapore della romanità, il pathos struggente dell’antico, il messaggio del cristianesimo, lo splendore del Rinascimento. Ma fu solo nel Sei-Settecento, e parte nell’Ottocento, che questi viaggi furono, per così dire, istituzionalizzati: il nostro Paese diventava la mèta privilegiata di giovani rampolli dell’aristocrazia europea, per lo più uomini di cultura accompagnati da artisti, che sistematicamente intraprendevano quel viaggio che ben presto sarà definito “Grand Tour”. Sono gli anni dell’enigmatico e contradditorio Giambattista Piranesi che giunge a Paestum ed esegue una serie di disegni dei monumentali templi. Sono gli anni del “Voyage dans le royaume de Naples” come lo definì J.J. Bouchard o del “Italienische Reise” di W.A. Goethe e del suo amico J.P. Hackert, senza dimenticare l’Abate di Saint Non, William Turner, Henry Swinburne e il Conte di Caylus. Una schiera di rampolli per un viaggio che, sulle prime, era tutto al maschile e praticamente inibito alle donne. Poi fu la volta di Elisabeth Vigée Le Brun, Sydney Morgan, Madame de Staël, Mary Shelley, di quelle donne, in pratica, appartenenti all’aristocrazia e alla borghesia britannica, francese, tedesca, scandinava che considerano il “viaggio in Italia” come l’unica possibile occasione per fuggire dalla reclusione domestica, dai suoi doveri e dai suoi riti. Donne pervase da un desiderio di libertà che rende più vivo il bisogno di conoscenza. E nelle loro relazioni di viaggio viene fuori tutta la loro acuta osservazione di ciò che visitano e quelle ambizioni culturali che altrimenti non avrebbero avuto modo di coltivare e di esprimere. In questo contesto si inseriscono anche i viaggi in Italia di Friederika Brun, poetessa danese di lingua tedesca, che segue itinerari già appartenuti a Goethe e, soprattutto, al fratello Friedrich Münter. Ne l’âge des lumières, per una borghese che teneva alla sua reputazione, viaggiare da sola era praticamente impossibile, ma la Brun ha un buon motivo: la sua salute precaria che richiede un clima mite e bagni di fango. Di Friederika Brun, qualche tempo fa, l’attento ricercatore e studioso cavese Federico Guida ha pubblicato il “Diario” che la viaggiatrice teneva con cura e che cominciò a pubblicare quando quei suoi viaggi in Italia (ne fece quattro dal 1795 al 1810) terminarono allorquando il marito Constantin Brun, console danese a San Pietroburgo, smise la sua missione e lei fece definitivamente ritorno a Copenaghen, dove abitava con la famiglia. Pagine di diario nelle quali «ricorda con nostalgia – scrive Ulrike Böhmel Fichera – i soggiorni in Italia, le bellezze artistiche, gli splendidi paesaggi, la vivacità di intellettuali, artisti e viaggiatori incontrati a Roma e in altre località». Anche se inserita in una sorta di limbo del dilettantismo da un mondo di intellettuali e letterati dell’epoca, dominata da una cultura maschilista, Friederike Brun nei suoi viaggi individua argomenti che la colpiscono particolarmente, per cui descrive con dovizia di particolare i luoghi a lei dintorno e osserva la capacità de “gli uomini semplici” ad integrarsi con la natura. La Brun giunse in Italia, la prima volta, per curarsi a Ischia con bagni di fango. Ma il suo interesse era anche per il patrimonio artistico e storico italiano: Il padre, Balthasar Münter, pastore evangelico, le aveva permesso di “assistere” (e non apprendere) alle lezioni di greco e latino impartite al fratello. All’inizio di giugno del 1796, – ricorda Federico Guida – La Brun giunse a La Cava e prese alloggio a Casa Carraturo, la stessa dove aveva abitato Gaetano Filangieri e Carolina Frendel, durante l’esilio volontario dalla Corte di Napoli, “trascorrendo felici periodi di riposo”; annotava «Ah! Qui visse Filangieri per due dei più felici anni della sua breve e gloriosa vita, nella pace domestica». Ben presto la cittadina metelliana, definita dalla Brun “figlia delle costellazioni celesti”, diventa “ancoraggio della mia anima, cittadina amata e indimenticabile”. Il suo soggiorno dura un mese e i giovamenti sulla salute si fanno notare. Scrive nel Diario: «Tutta la stanchezza era svanita. Respirai insaziabilmente la fresca aria carica di aromi di erbe profumate che pervadeva tutti gli aperti atri dell’ariosa casa, e mi deliziai nella pienezza della valle più bella del mondo». La giovane donna danese nelle sue lunghe passeggiate ebbe una stretta vicinanza con le popolazioni locali della Valle con le quali si intratteneva; numerose erano le piccole escursioni che faceva soprattutto nei dintorni de La Cava, per respirare quell’aria lieve e balsamica che portava giovamento alla sua salute. E tra queste ne fece una anche alle grotte del Bonea, luogo pittoresco che sedusse l’animo della viaggiatrice: “il suo fascino – scrive Federico Guida – esercitò un influsso particolare sull’immaginazione poetica della scrittrice danese, perché quel solitario antro naturale apparve ai suoi occhi un ideale rifugio per gli innamorati”. Annotava la scrittrice: «Dovunque lungo queste rocce, sgorgano fuori ruscelli e si aprono grotte profonde. Una di queste grotte era tutta aperta… con il tortuoso ruscello ai nostri piedi, luce e frescura scorrevano giù nella valle… L’incantevole posto non mancava di essere anche un luogo sacro; in un posticino all’asciutto, giusto in mezzo a due nicchie, come su un sacro focolare di ninfe, due uccelli avevano fatto il nido nel morbido muschio. Timidamente volarono verso di noi. Come mi fu due volte cara questa grotta! Divenne per me il tempio dell’amore». Immediata è la consapevolezza di quanta sensibilità d’animo fosse dotata La Brun, che sapeva cogliere aspetti del paesaggio, del clima cavese nelle diverse ore del giorno: volto nascosto de La Cava del Settecento. E fu da quei luoghi, tra anfratti di rocce, gocciolii di stalattiti e armonie di ruscelli che la poetessa, nel 1796, fu ispirata a scrivere “Invito nella valle de La Cava”, versi immaginifici che, nel 1813, vennero musicati dal compositore tedesco Friedrich Kuhlau. «Grazioso amore, dolce amore vieni o vieni in questa Valle!» scrive la Brun ed “è difficile trovare nella letteratura di viaggio locale – annota Guida – un’altra poesia che sia paragonabile a questa della poetessa danese”. Testi e musica rimasti dimenticati per ben due secoli e che ora Federico Guida con sapienza di studioso, ha dato alle stampe per le edizioni di “areablu” di Cava de’ Tirreni, presentando questo suo ultimo, interessante lavoro, intitolato come la poesie, nel corso di un evento nel salone di rappresentanza del Comune metelliano, durante il quale il “Deutsche Lied” (o romanza che dir si voglia), per voce e pianoforte, in prima assoluta, è stato eseguito con maestria dagli alunni della sezione musicale del Liceo “I.I.S. De Filippis-Galdi”, diretto dalla prof. Maria Alfano. La preparazione musicale degli alunni è stata del prof. Ivan Iannone e del compositore Maurizio Cogliani. Un libro che è la continuazione ideale delle precedenti ricerche del Guida sulla Brun la quale, con questi suoi versi, proiettò nei salotti culturali europei ottocenteschi il nome de La Cava. Ad onor del vero la Brun dedicò poesie anche a Napoli, Piano di Sorrento e Pompei, ma in questi luoghi la poetessa danese è stata dimenticata, per cui va dato merito al Guida se la presenza di queste donne straniere resta ancora come momento di riflessione per gli uomini di oggi. Scrive Federico Guida: «Questo testo (la poesia) ha un grande valore simbolico e ideale poiché racchiude in nuce una sorta di tacita espressione di un riconoscente omaggio che la Brun volle rivolgere a La Cava».