Il contrasto tra i giudici e il potere politico è ben altra cosa e risponde a logiche diverse - Le Cronache
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Il contrasto tra i giudici e il potere politico è ben altra cosa e risponde a logiche diverse

Il contrasto tra i giudici e il potere politico è ben altra cosa e risponde a logiche diverse

di Giuseppe Gargani
L’attuale contrasto tra la magistratura e la politica, è la ripetizione di una mediocre polemica strumentalizzata dai magistrati ma in particolare dalla sua Associazione e dai rappresentanti della maggioranza di governo la quale non sa ancora se approvare le modifiche legislative del Ministro Nordio che sono importanti ma non configurano una riforma della giustizia.
Il contrasto tra la magistratura e il potere politico è ben altra cosa e risponde a logiche diverse.
Non ci si rende conto che il contrasto tra la politica e la magistratura non è una bega, né un complotto ma un problema serio delicatissimo che hanno tutte le democrazie moderne caratterizzate da una giurisprudenza che prevale sulla legge: questo ha determinato nella storia il perenne conflitto tra i “signori del diritto“ per ricordare il titolo di un libro illuminante in proposito del prof. Ortensio Zecchino che esamina quell’antagonismo dall’antica Grecia e dall’antica Roma
fino ai giorni nostri.
Le proposte del Ministro Nordio sono importanti ma per determinare un equilibrio istituzionale che oggi è compromesso bisogna disciplinare un nuovo ruolo del magistrato e un rapporto diverso con le altre istituzioni.
Salvatore Satta diceva che “il diritto è quello che i giudici decidono essere diritto” e Zecchino spiega che “da quando la “ragione di diritto” si è avviata ad essere espressione della volontà politica, il rapporto tra diritto e potere si avvia alla rottura dell’equilibrio antico che vedeva il condizionamento e la subordinazione del primo al secondo.
La tendenza di fondo è quella di superare in qualche modo la legge con la giurisprudenza che si è
accentuata per la profonda crisi della politica che ha consentito la supplenza piena della magistratura e ha consentito il superamento del dettato costituzionale che prevedeva “un ordine autonomo e indipendente” di una magistratura “bocca della legge” e questo è superato nei fatti. Da anni sostengo che “l’autonomia” ha avuto un’assoluta prevalenza tant’è che i magistrati interpretano il CSM come l’organo di autogoverno per affermare la loro separatezza.
Se non si affronta questo problema per confermare e rilanciare l’indipendenza del giudice che è indispensabile in una democrazia matura. Naturalmente l’indipendenza non può essere scissa da una responsabilità e
questo è il problema che i costituenti non si sono posti.
Se si deve esaltare la indipendenza del giudice bisogna distinguerlo dal pubblico ministero che fa un mestiere completamente diverso, risponde a criteri diversi, essendo una parte nel processo.
Questa la ragione della espressione “divisione delle carriere” di cui si parla da anni che non rende bene il concetto, ma che è necessaria per la funzione propria e fisiologica del giusto processo e quindi è nell’interesse del cittadino.
I pubblici ministeri dicono che è necessaria la cultura della giurisdizione nella possibilità di alternarsi nelle diverse funzioni, ma
la cultura della giurisdizione la debbono avere tutti: inquirenti giudicanti e avvocati. Dico con molta sincerità che non capisco l’ostilità a questa che è una riforma, da parte della magistratura che se fosse più accorta dovrebbe invece auspicarla. Essa ritiene di esercitare un potere complessivo e quindi determinare la prevalenza del giudiziario sul legislativo e sul potere politico. Questo è un vulnus per la democrazia e pochi se ne rendono conto.
I magistrati sostengono il contrario e parlano di complotto della politica e io l’ho ripetuto mille volte, ma vale ricordarlo, che i magistrati hanno teorizzato questo ruolo politico determinato dalla supplenza, voluta dal legislatore (e questo è vero!), e dalla rinunzia delle sue prerogative che ha alterato l’equilibrio già instabile negli anni ’90, quando il Parlamento modificò l’art.68 della Costituzione. Questa supplenza è stata costante e con più vigore è stata esercitata dalle indagini di “Tangentopoli” in poi ritenendo di dover intervenire per dirimere i conflitti sociali con un controllo giurisdizionale. È stato detto e scritto che questo controllo “deve invadere “necessariamente sfere di intervento istituzionale riservate ad altri. E questo è il metodo e la prassi seguita.
Ed è stato aggiunto che “gli spazi lasciati liberi dalla mancanza, o grave insufficienza dell’opposizione politica, siamo stati essi pure, necessariamente occupati dall’intervento giudiziario”.
Questi i proclami chiari e precisi, ma la politica non è allarmata da questa profonda questione istituzionale e dà vita ad un contrasto e ad una polemica che serve alla magistratura per gridare al complotto e per alimentare il giustizialismo sempre presente nel nostro paese, non rendendosi conto che è essa stessa a delegittimarsi.
Per fare un esempio eclatante e valutare le vicende attuali dico che chiunque è minimamente avvertito di cose giudiziarie sa che “il concorso esterno alla mafia” non è disciplinato dal codice, quindi non è un reato, e da tempo si invoca una norma che prevede, esplicitamente una fattispecie precisa per configurare appunto il reato. Non avrei mai immaginato, pur ritenendo di conoscere uomini e cose, che si accendesse una polemica da parte di cultori del diritto e di magistrati su questa questione.
Il ministro Nordio, ha espresso l’esigenza di dover provvedere a questa lacuna per una più consistente lotta alla mafia non per attenuarla: attribuire al ministro una volontà diversa significa non conoscere la sua storia e offenderlo a morte.
L’attuale giurisprudenza sul “concorso esterno” è del tutto evanescente. In una intervista a questo giornale il Prof. Mariello lo ha spiegato in maniera mirabile: “si aggirano i protocolli più rigorosi di legalità giurisprudenziale… e il dispositivo è di sfuggente identità”.
Infatti se le indagini su un parlamentare di nome Calogero Mannino che era il campione assoluto e intelligente nel Parlamento italiano contro la mafia, sono state sonoramente bocciate vuol dire che la mancata definizione del reato è stato deviante. Basterebbe leggere tra tutte le sentenze di assoluzione l’ultima della Cassazione appunto per l’on. Mannino per rendersi conto di questo e il suo contenuto sarebbe istruttivo per formulare una norma adeguata
D’altra parte la pretestuosità della trattativa tra lo Stato e la mafia è ormai codificata da sentenze definitive.
Le indagini sul “concorso esterno” non rispondono a regole precise: si fanno le indagini sulle persone e non sui reati e questa distorsione doveva essere eliminata da tanto.
Il prof. Fianadaca da grande giurista ha dato sempre indicazioni in proposito e ha rivelato in una recente intervista che il pm Caselli era spaventato all’idea che si potesse scrivere una norma precisa.
La verità è che la indeterminatezza del reato dà grande discrezionalità al pm che non avrebbe altrimenti e il coro di dissensi è proprio la prova delle subordinazioni della politica alla “discrezionalità” assoluta della magistratura. Debbo dire che, una giustificazione “sofisticata” l’ha data l’ex magistrato Spataro, che è un fine giurista, il quale non si appella alla supplenza politica cui ho accennato, ma esalta e chiede il rispetto dovuto alla giurisprudenza, rispetto che si deve alla “interpretazione della legge”, agli indirizzi giurisprudenziali per cui il ministro “non può agire in sede legislativa!
Dire poi che esercitando il potere legislativo si offenderebbe Falcone e Borsellino è proprio una eresia, perché è proprio Falcone che utilizzando giustamente l’indicazione giurisprudenziale auspicava (l’ha detto varie volte) una presa di posizione sistematica che doveva tra l’altro riguardare i reati associativi.
Il Presidente del Consiglio ha detto che questo argomento non ha un apriorità, ma dimentica che “il diritto” è sempre una priorità, e d’altra parte ella non tiene conto che la magistratura non vuole rinunziare alla consolidata interpretazione creativa perché ritiene di essere un “potere” e non più un “ordine”.
Questo è il problema della separazione dei poteri e dello stato di diritto e quindi è una priorità.