In Sant’Anna al Porto il nuovo progetto della massima istituzione musicale cittadina, un coro pop a cappella con aule, borse di studio e tanto altro, è stato presentato alla cittadinanza dal direttore Fulvio Artiano e da Luciano Provenza, in una serata dark-pop-champagne, con un padrino d’eccezione Massimo de Divitiis e tanti amatori in “squadra”
Di Olga Chieffi
Il nostro caro Barone, con colpo deciso di bastone in terra, entrando nella antica chiesa di Sant’Anna al Porto, martedì sera, avrebbe di certo esclamato “Un tal baccano in chiesa! Bel rispetto!”. Platea numerosa, la parrocchia segue il suo Don Claudio: al centro del tempio la nuova filiazione del Conservatorio Musicale “G.Martucci” di Salerno, il Coro pop a cappella dell’istituzione, presentato dal suo direttore Alessandro Tino e dal dinamico duo composto dal presidente Luciano Provenza, che ha fornito un invidiabile battage pubblicitario social televisivo alla formazione, nonché dal direttore Fulvio Artiano. Il progetto è stato presentato come aperto a tutti coloro che lavorano o frequentano il conservatorio e che desiderino approcciare questo genere: la domanda sorge spontanea: un momento di svago dal lavoro e dagli studi, ora d’aria, “scialla”, puro divertimento, ricreazione, visto che è stato istituzionalizzato anche il supporto psicologico in iscuola e l’impegno canoro, per di più con canzoni conosciute, può fare bene da antistress “contro il logorio della vita moderna”, per dirla con Ernesto Calindri? Nei giorni successivi, tra ringraziamenti e variazioni sul tema, si legge sui social che il Coro pop a Cappella è progetto nuovo in Italia nell’ambito delle istituzioni Afam, unico, a Salerno, sostenuto da Veronica Pompeo, Adio Loffredo, Antonello Mercurio, Maurizio Giannella ed Ernesto Pulignano, che il Direttore del Conservatorio Fulvio Artiano in una sera dello scorso dicembre, ha letteralmente istituzionalizzato, donandogli dignità, aule, borse di studio, responsabilità, immagino “crediti” e che ci fa pensare che, oggi come oggi, al motto del Maestro Giovanni Carlo Cuciniello “Oggi una bacchetta e una laurea non si negano a nessuno”, dobbiamo aggiungervi anche i termini corsi e insegnamenti. Dagli studi filosofici abbiamo appreso l’arte di non meravigliarsi di nulla, poiché il momento che stiamo vivendo è stato ampiamente previsto “[…] L’italiano (non parlo del vero popolo, chè quello è ancora santo e non conta nulla) che conta vuol passare dalla fica agli spaghetti e dagli spaghetti al pisciatoio, e si ritiene offeso e ingiuriato da chiunque lo provochi a pensare.” Così scriveva Bruno Barilli, una delle firme più estrose e luminose della critica musicale italiana, nel 1913 ad Ildebrando Pizzetti. Profetico Barilli, se Adorno, oltre quarant’anni dopo questa lettera, è uno dei primi ad additare un fenomeno ch’egli definisce in più modi e che noi potremmo sintetizzare sotto quello di regressione dell’ascolto musicale, oggi dello spettacolo in toto. I media non fanno che annunciare, con toni trionfali, una sempre maggiore diffusione della cultura, della vita culturale, dell’esecuzione musicale dell’interpretazione teatrale, in particolare nel nostro paese, d’una sempre maggiore fame di cultura che si manifesterebbe a tutti i livelli, in particolare presso i giovani, con l’ovvio corollario di incontrollate e dissennate iniziative, ovunque proliferanti a spendere, per organizzare manifestazioni, il fiume di denaro che istituzioni ed enti senza alcun controllo (è difficile che si scelga il progetto di qualità, ma si premia l’evento con maggiore partecipazione e “ritorno d’immagine”, anche se mediocre, grazie a quella “governance”, per la quale bisogna andare incontro al gusto dei più e, soprattutto, lavorare, oggi, significa voler piacere al capo, voler essere produttivi e, su tutto, voler continuare a lavorare fino allo sfinimento) diffondono su campi che, tutta una pletora di maneggioni, sa molto bene come e dove irrigare. Riguardo il momento squisitamente musicale, la scaletta ha presentato un florilegio composito di melodie, aperto da “Qualcosa che non c’è” di Elisa, seguita da “Estate” dei Negramaro, e ancora un sentito brano elevato dallo stesso direttore “Torna a casa” dei Maneskin e dopo l’ ottenimento dello “svacco”, a detta dello stesso Alessandro Tino, da parte del coro del conservatorio, l’esordio non felice nell’attacco del padrino della formazione, nonché docente del Martucci, Massimo De Divitiis in “Fix you” dei Coldplay e ancora, evocazioni da Lo Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij e passaggio di bacchetta per “Io per lei” di Pino Daniele con un Antonello Mercurio in “chiodo” d’epoca per trasformarla in madrigale. Si è, quindi, passati a La Cura di Battiato, sempre affidata alla voce solista del direttore e ancora, “Iris” di Antonacci e “Nel blu dipinto di blu” di Modugno. Scatenato anche in coreografie il coro fricchettone per “Uptown Funk”, arrangiato da Matteo Parisi, e gran finale con “Cant’help falling in love” di Weiss, con tanto di lumini e cellulari accesi una chiara anticipazione di uno stra-luminoso Natale. Per cantare il pop le voci sono diventate strumenti, sulle scie della polifonia rinascimentale e barocca, le cui scuole più importanti al tempo si trovavano in terra fiamminga e a Venezia, naturalmente, e ci piace ricordare La Guerre di Clément Janequin, per celebrare la Battaglia di Marignano del 1515 e, quindi, giungere al beat-box di cui maestri, e per l’intera durata del concerto, si sono rivelati Paolo Di Domenico e la giovanissima Gaia Santimone, intervenuta in qualità di “figlia” del papà conservatoriale. Finale in Gloria, come sempre, con certa stampa fuori-campo che riesce, purtroppo, anche ad ammaestrare il pubblico (non se ne abbia Alfonso Malangone). In qualità di critico “ben temperato”, sulle tracce di George Bernard Shaw, continueremo ad inseguire la bellezza attraverso una visione totale, libera e privilegiata, per riuscire a cogliere, insieme a chi vorrà, ancora qualche gemma prodotta da un mondo fatto, oramai, di sponsorizzazioni, pubblicità, promozioni, management, social e tante “sinergie”, intento a celebrare le sue fortune, fingendo, come in un ballo in maschera, convenzioni e usi di una società che in tempi, parecchio lontani, aveva pur avuto una salda radice culturale.