Aneddoti e ricordi del periodo festivo di ex allievi che restavano presso l’istituzione e di quanti raggiungevano le proprie famiglie. Nel ’54 anno dell’alluvione, non ci si raccontava più l’attesa, ma quella ferale esperienza
Di Vincenzo Sica
I ricordi sono un momento di vita vissuta, aiutano a ricordare il passato e riportare indietro il tempo, ci sarà sempre una matita per scrivere e mai una gomma per cancellarli. Personalmente non sono mai rimasto in istituto nel periodo natalizio. Era per me e tanti ex allievi un periodo da trascorrere in famiglia, ma ricordo che una serie di amici non rientrava in seno alle proprie famiglie, vuoi per la lontananza, vuoi per altre motivazioni, restando in istituto. Ci riferiamo agli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, quando povertà e altro imperavano, ma al ritorno il loro racconto entusiasmava, nella loro narrazione il come avevano trascorso le festività, alcuni erano stati a casa di alcuni Istitutori accolti nelle loro famiglie, altri solitari in istituto. “Forse unico – ricorda Leopoldo Busiello – ma non ricordo perfettamente chi abbia avuto con me la fortuna di passare il periodo di Natale con il Direttore De Roberto giocando la tombola fino a mezzanotte con la partecipazione delle figlie di Giovanni Menna il portinaio che abitava in istituto e i premi erano del dentifricio, sapone e tutto quello che occorreva per la toilette. “Il mio ricordo – continua Alessandro Belmonte – è triste. Fui mandato via dall’istituto il giorno 24 dicembre per un gesto visto male dalla maestra di Italiano, giochicchiavo con un violino vuoi per la mia età e spregiudicatezza lo utilizzai al modo di una chitarra, la maestra si trovava di passaggio e mi sgridò di brutto dandomi anche un ceffone e fece in modo di farmi allontanare dall’istituto, al mio rientro ricordo la data che mi è rimasta fissa nella memoria il 7 gennaio 1973, mi accompagnò mia sorella, lei andava dalle suore a Montevergine , mi allontanai di casa andai sotto la villetta dove parcheggiavano i professori, quando arrivò la maestra, scendendo dalla macchina, gli andai incontro con lo scatolo che conteneva due bottiglie di spumante, io ci misi delle pietre dentro e con fare non proprio ortodosso gliele lanciai addosso. Lei non la prese bene, raccontando alla presidenza il fatto accaduto. Ritornai a casa e mia sorella mi riaccompagnò in istituto ma le intimarono che avrebbe dovuto accompagnarmi mia madre, la quale intervenne la sera stessa: non fui accettato più! dopo aver raccontato del mio gesto incauto dovuto alla rabbia e alla gioventù fui espulso da tutte le scuole d’Italia. “Negli anni ’50 – ricorda Mario Barra – le scuole aprivano ai primi di ottobre, quindi dopo tre mesi non si vedeva l’ora di andare a casa, per i più grandicelli dieci, quindici giorni prima di Natale tramite posta indirizzata al sig. Rettore arrivava l’autorizzazione scritta dal genitore, che si assumeva la responsabilità che il figlio poteva andare a casa da solo. Io dall’età di quindici anni scrivevo questa lettera e la facevo imbucare a mastro Peppe che abitava a Mercatello, questo accadeva verso il dieci o undici di dicembre e due giorni dopo avevo il permesso di andare a casa da solo. (Mastro Peppe era il tutto fare, idraulico, imbianchino ecc.) E verso il giorno ventidue o ventitré si partiva. Scendevo a piedi fino al Lungomare di fronte alla Questura dove prendevo la filovia e con cento lire raggiungevo Pontecagnano e, finalmente, casa”. Mezzi e mezzucci per ritornare a casa da soli anche Francesco Celentano preparava da solo il permesso, quindi consegnato al mitico maestro Diavoletti, il calzolaio, che lo spediva così poteva raggiungere senza ansie la famiglia a San Marzano sul Sarno. A volte con la filovia o il treno fino a Angri poi il bus e ci si fermava allo stadio a vedere la Salernitana, le partite con i marinai Inglesi che infortunarono tre giocatori granata. “I miei ricordi asserisce – Luciano Di Pietro – sono pochi. La maggior parte aveva il permesso per trascorrere a casa con i genitori, qualcuno che era solo veniva ospitato a casa dell’amico o dell’istitutore e dopo quando ci si rivedeva ci si raccontava le storie ricordo che quasi tutti gli anni della mia permanenza l’istituto chiudeva a Natale”. “Ho il ricordo di un Natale, in particolare -racconta Gaetano Sica – rischiavo di non andare a casa perché avevo una febbre molto alta, a causa di una ferita al dito procuratemi dalla corteccia di una canna, allora cos’ho fatto, mi sono messo a letto con tante coperte per fare una grossa sudata, così la mattina ero pronto per andare a casa. Un altro particolare del Natale era che durante le festività si preparava tanta roba da mangiare, io volevo mangiarla tutta ma non ce la facevo, ed ero costretto a lasciare. Ritornato in istituto, nei momenti di fame rimpiangevo quel bene di dio che avevo lasciato”. “Per noi, il 24 ottobre del 1954, – ricorda Mario Di Maso – è data storica che ha segnato in noi ancora adolescenti, il cambiamento della nostra ancora tenera età. Infatti, la catastrofe alluvionaria che si abbatté sulla nostra Salerno e zone limitrofe, mutò il comportamento in ognuno di noi amici: mi va nominarli, perchè il tirare a calci ad una palla di pezza non fu più il nostro gioco preferito. Con gli amici, in ordine sparso, ma tutti uguali e senza una graduatoria di affettività: Vincenzo Calabrese, Vittorio Malvone, Angelo Di Napoli, Orza, Romano, Racioppi, De Rose, I fratelli Antonio e Carmine Lanzara, Colella, Amedeo Rosamilia, Vincenzo Tortora, Mazzilli, Cioffi, Sangerardo, D’Adamo, Mari, Agresti, Liambo e tanti altri, ci raccontavamo il triste evento dell’alluvione. Quindi, incominciammo ad apprezzare le vacanze in genere e a trascorrerle con i nostri cari. Infatti, ricordo, vagamente, potrei anche sbagliare, Monetti tipografo ma nostro coetaneo, fece una specie di calendario, per sottolineare i giorni che trascorso i quali, potevamo trascorrere le nostre vacanze a casa. Ad ogni giorno che passava mettevamo una croce, e così via. Da quel lontanissimo giorno di ottobre, cambiò la nostra adolescenza in una maturità, che ci ha fatto apprezzare i sentimenti, che attribuivamo si nostri cari, i quali per miseria cercando, quale potesse essere il posto, per garantirci un pasto e un tetto, ci avevano affidati all’istituto. Almeno questo fu il ripensamento, e non più il biasimo dell’allontanamento dagli affetti”.