Successo per lo spettacolo che ha chiuso nell’incantevole cornice della Torre Vicereale la sezione Stories del Frangenti – Cetara arts festival firmato da Vincenzo Albano. L’ attrice ha il pregio di farci ragionare sulla disattenzione e deresponsabilizzazione collettive
di Mariangela Stanzione
θεάομαι (theaomai): “io guardo”. Osservare, scorgere, mirare. È da questo verbo che i greci trassero la parola “teatro”, il luogo della visione—laddove “visione” è contemplazione, sgomento di fronte al fenomeno della caducità. Poco si vede in questo spettacolo di Silvia Frasson: una donna minuta in inglesine, pantaloni eleganti, body con trasparenze sulle clavicole, tutto rigorosamente nero. Eppure “La vita salva” dell’attrice di Chianciano Terme (nella cornice della Torre Vicereale in chiusura della bella sezione Stories del Frangenti – Cetara arts festival, firmato da Vincenzo Albano) rilancia tutta la sconcertante vastità della vita in divenire. La vita vera. La vita dolorosa. La vita in cui tutto può succedere all’improvviso, compresa la sua tragica interruzione. La nostra morte è qualcosa che accade agli altri, ai cari che lasciamo indietro e agli sconosciuti che incrociano il nostro corpo per puro caso: così accade al povero automobilista che investe il quindicenne in bicicletta, sbucato all’improvviso sulla carreggiata dal bosco antistante il lago; così al medico che deve comunicare l’irreversibile coma alla madre e al fratello, e tenuto a chiedere – nel momento peggiore della loro vita e al contempo unico istante utile ad estrarli – se siano disposti a donare gli organi del ragazzo; così alla bambina di dieci anni dal cuore “troppo grande” (cardiomegalia), che trascrive sogni su un quaderno e che subirà il trapianto. Non si dà vita fuori dal corpo. Di questo Silvia Frasson sa trasmetterci, concretamente, lancinante consapevolezza. Introdotta da un identikit del cuore in quanto organo a partire dai suoi principi fetali, questa narrazione episodica, dal montaggio quasi cinematografico, non evoca semplicemente le vite orbitanti attorno a questo incidente: le incarna una ad una. Quantunque il testo ne dia conto in terza persona, con incursioni di dialoghi diretti, voce, mimica, atteggiamenti-topoi di immediata riconoscibilità tratteggiano efficaci una costellazione di individui più o meno vicini, più o meno lontani per vissuto, rapporto, peculiarità. Gioventù e maturità, spericolatezza e malattia, prostrazione morale e speranza, amori appassiti e amori da venire si avvicendano sul viso di Frasson e per i suoi arti lassi o scattanti, fra pedalate a perdifiato, sigarette universitarie, uno stropicciarsi la glabella nello sconforto, uno sguardo vacuo e fisso sull’assenza di senso. Da un capo all’altro dell’“umano”, i suoi occhi sanno impicciolirsi sotto il peso delle responsabilità di un chirurgo («stupidi, stupidi!» coloro che suppongono ci si possa assuefare alla Tragedia), e poi ingigantirsi e accogliere la meraviglia di una bambina che abbraccerà l’impeto esuberante dell’adolescente. Si tratta di vite comuni, quasi anonime, per cui lo straordinario è ormai divenuto familiare (come per la sessantenne che verifica con decisione e serietà la compatibilità di organi umani con i pazienti bisognosi, e che però capitombola al primo match con uno sconosciuto su una chat di incontri); o in cui lo straordinario fa irruzione in forma di evento inaspettato—non ultimo quello scenico che, a partire dalla testimonianza di una perdita realmente avvenuta, si consuma davanti ai nostri occhi nel tematizzare una verità fondamentale: il rischio di vivere. Meritevolmente patrocinata in questo lavoro dall’A.I.D.O. – Associazione italiana per la donazione di organi, Frasson ha il pregio di farci ragionare sulla disattenzione e deresponsabilizzazione collettive derivate, forse, da un bigottismo culturalmente radicato nei confronti del nostro corpo, e della sua – seria, non superficiale – cura tout court, compreso il post mortem. Con un’onestà travolgente e tutta la delicatezza che la tematica richiede, la morte che irrompe nella vita e la vita che interrompe la morte vengono concluse nella circolarità del tuffo (uno in incipit e uno in explicit, accompagnati dalla stessa deflagrante onomatopea immortalata au ralenti), preso a metafora del prorompente vitalismo di una gioventù che sa vivere dell’istante.