Di MARIO FRESA
«A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, / Io dirò, un giorno, i vostri segreti nascimenti: / A, nero mantello sul corpo di mosche rilucenti / Che ronzano intorno a orribili fetori, // Golfi d’ombra; E, bianchezze di tende e di vapori, / Lance di fieri ghiacciai, e re imbiancati, e tremori di umbelle; / I, porpora e spurgo di sangue, riso di labbra belle / nell’ira o nell’ebbrezza penitenti; // U, cicli, divine vibrazioni del verde mare, / Quiete di bestie ai campi, calma di rughe / Che l’alchimia suggella sull’ampia fronte dei sapienti; // O, Tuba suprema gonfia di stridi sconosciuti; / Silenzi squarciati da Angeli e da Mondi: / – O l’Omega, il raggio violaceo dei Suoi Occhi!» (Rimbaud, Vocali; 1871. Versione di M. F.). Un uomo che capisca che cos’è la saggezza non può che diventare insano. Chi usi la parola nel segno dell’arte vuole agire, soprattutto, contro la monocroma mediocrità di chi si ostina a utilizzare le forme del discorso come un astuto mezzo di scambio o, peggio, come utopistico strumento “sociale”, di mutua (e ipocrita) comprensione (ma poi dico: ci conviene davvero, questo ridicolo desiderio di conoscerci fino in fondo?). Ma la parola può, deve servire a ben altro (e non solo, certo, a fingere di intendersi…): dev’essere l’inizio di un ingrandimento e di una espansione della cosiddetta realtà (e di una protesta contro di essa). Come possiamo sentirci degni d’essere vivi, se non ci trasformiamo, almeno una volta, in un Orlando furioso che tenti di uscire dal mondo (e, dunque, da sé stesso), per viaggiare oltre e per vedere oltre; e per essere altro? Sia salva, la parola, per una volta, dall’inquinamento volgare e affaristico della lingua dell’ovvio; sia liberata (almeno per qualche istante, nell’eliso della musica o dei versi) dalla comunicazione degli scambi commerciali, dal vocabolario servile del buon senso, dell’utile, del calcolo opportunistico (lasciamola, questa orribile e ipocrita lingua degli scopi e delle convenienze, agli impiegati statali, ai commercianti, ai contabili, ai politici.). La parola deve diventare visione e stordimento e accrescimento delle nostre percezioni. L’occhio l’orecchio la lingua dovranno presto imparare nuovi colori nuovi suoni nuovi sensi, per poter sopportare, ogni giorno, il tartufesco inganno della vita sociale… Rimbaud ci spiega che perfino una singola vocale può (e deve) divenire altro da quel che ci hanno insegnato sempre. Tutto dev’essere o capovolto o ampliato o deriso o distrutto e ricreato: questo il messaggio-Verbo del grande poeta Veggente. Ciò che si vede è altro da ciò che pare; ed è altro ancora; ed è pure il suo rovesciamento, la sua antitesi, il suo disfarsi. I colori, nella follia felice del poeta, sono tutti attraversati da odori o da suoni o da immagini estreme, quasi impossibili da focalizzare, che fanno magicamente intendere la loro provenienza assoluta, sovrastorica, che s’oppone con fierezza al Destino e alla stessa Natura (la nostra prima, mortale nemica); e solo così, trasformando l’occhio in uno strumento di amplificazione e di ribellione, di sovvertimento e di deviazione, potremo sperare di tenere in scacco la noiosa e deprimente vita che opprime chi non sappia immaginare, dietro una semplice vocale, l’eterna risplendenza di visioni di Angeli o di Mondi inconosciuti; e potremo così, infine, combattere, con un certo onore, il Tempo inutile, e impudico, e stupido che sempre ci fa più morti che vivi (Julius Evola: «Ho l’orrore del tempo che debbo riempire».). Vita dell’arte, dunque, splendidamente fittizia, contro la vita reale, mortalmente caduca e falsa: nell’ebbrezza rimbaldiana, nella sua ardita trasmutazione del linguaggio e della medesima esistenza, si potrà forse trovare la strada di un momentaneo incantamento che possa, finalmente, restituirci la gioia di sentire non già la semplice vita, ma la sovrabbondanza e il superamento di essa.