Rino Mele
È la Domenica delle Palme, palme da mostrare in segno di giubilo, stendere a terra per farne sentiero ed entusiasmo al passaggio di un profeta su un puledro, figlio di David, l’inaspettato re di un nuovo mondo. Gesù sta per entrare a Gerusalemme passando poco lontano dal monte degli Ulivi. Solo San Giovanni parla di palme (acceperunt ramos palmarum), per l’evangelista Matteo erano rami d’alberi senza nome, mentre per Marco i giovani ponevano i loro mantelli e rami verdi appena strappati dai campi, in atto di sottomissione, dove il puledro stava per passare col suo signore. Giotto, sulla parete nord della Cappella degli Scrovegni (1303-1305), ha fatto una sintesi del racconto di Marco e di Matteo: sull’affresco della cappella di Padova, tra la folla che si assiepa c’è chi si prostra e stende vesti e piccoli rami, ma si vede anche l’angelica visione di due giovani con tuniche bianche, su alti alberi, che con sforzo piegano rami per spezzarli, e correre in basso e stenderli al passaggio del re. Quando la stellare carovana passa più vicina al Monte degli Ulivi, più alte si levarono le grida di giubilo, e lo chiamavano re nel nome del Signore (rex in nomine Domini) come racconta Luca, ma ecco che alcuni farisei (che tra la folla intristivano per questa gioia festosa) si rivolsero a lui chiamandolo Maestro e dicendogli di far smettere i discepoli, che non gridassero il suo nome chiamandolo in quel modo. E allora tutti poterono ascoltare la risposta inaspettata, che sgorgò limpida come da una sorgente, chiara e luminosa in quel tumulto: “Vi dico che se questi taceranno, saranno le pietre a gridare”.
Quando eravamo ragazzi, questa domenica era un giorno di grande festa, sembrava Pasqua prima di Pasqua: Gesù nella pienezza della sua gloria. E ci scordavamo che, qualche giorno dopo, sarebbe stato torturato, e ucciso con una violentissima pratica di morte dilazionata, perché tutti potessero esserne lungamente spettatori. Domenica delle Palme è stata una festa contadina, bella, spietata nella sua pagana gioia. Dico “è stata” perché penso – e ne sono turbato – che questa nostra epidemia, avendo messo a nudo il confine labile che abbiamo con l’inconfessabile, avrà distrutto la possibilità di far teatro della nostra tradizione. Questa tremenda epidemia, non più grave di altre precedenti (basti pensare alla terrificante “Spagnola” di cento anni fa, 1918-1929) è però caduta in un momento in cui è in atto una disimmetria schizofrenica profondissima: agli stretti confini politici degli Stati non corrispondono più confini della comunicazione, per cui nello specchio della frammentizzazione politica appare un’immensa società che parla una lingua elementare, quasi preverbale, unitaria, in cui privilegiati e poveri, ricchi e vittime, appaiono uniti da una condizione da cui nessuno sfugge la paura della morte. Sta venendo meno, s’è scalfita la grande diga della rimozione, il tentativo di evadere dal vero nella credula ricerca di un’eterna beanza del vivere come fossimo immortali, strofinandoci addosso sempre nuovi fiammiferi di un’evanescente gioia. Abbiamo l’impressione di non poterci più nascondere, tutti incominciano a sapere tutto di tutti, ci avviamo a non credere più al privilegio dell’io ed è doloroso, come svegliarsi: come quando, pur di non farlo, sognamo di dormire. E lo facciamo anche senza ricordarcene, una volta svegli. Scrive Franco Fornari (1985), citando Roheim, “il sogno più tipico, il sogno dei sogni, consiste nel sognare di dormire”. Se questa nostra pandemia si fosse sviluppata cento anni fa (come si sviluppò la “Spagnola”) sarebbe stato solo un orrendo incidente della storia, ma adesso – tutti pigiati nella stessa stanza della comunicazione – disarticola la struttura delle nostre certezze e le futili gerarchie.