Gender Fluid, dalle arti, alla scuola, alla musica  - Le Cronache
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Gender Fluid, dalle arti, alla scuola, alla musica 

Gender Fluid, dalle arti, alla scuola, alla musica 

Alla prima serata della IV edizione de’ “L’Arte per la giustizia”, inaugurata nella corte del Museo diocesano, è forse mancata una riflessione seria sul flou, centrata nella sola mostra e dalla scelta musicale, che ha avuto nei titoli di Offenbach e Vivaldi il suo apice. 

Di Olga Chieffi

La IV edizione della rassegna “L’Arte per la Giustizia”, firmata da Imma Battista e coordinata musicalmente da Tiziana Silvestri, certamente una produzione che è fiore all’occhiello dell’autunno musicale del Conservatorio Statale di Musica “G.Martucci” di Salerno, quest’anno ospite della corte del museo diocesano, ha inteso dedicare la sua prima giornata al tema Gender Fluid, ovvero a quella definizione che rappresenta il mondo di coloro che decidono di non avere un’identità di genere precisa, fluttuando dal maschile al femminile e viceversa, un fenomeno in costante crescita, soprattutto nei giovani della generazione Z che preferiscono evitare di essere etichettati in base al loro genere. La mostra fotografica firmata da Sara Napolitano e Tommaso Sansanelli, Anima Mundi, ha pienamente sviscerato il tema rompendo la forma, che viene nelle immagini tirata fuori dalla cornice. A una prima visione, l’esposizione sembra possedere la trama di una tessitura scandita nella simmetria e nell’ordine, al cui interno si realizza una ostinata armonia. Armonia, però, mai del tutto compiuta, perché in essa sopravvive la disperazione e la contraddizione interna. Scrive Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno: “Senza la memoria di contraddizione e non identità, l’armonia sarebbe esteticamente irrilevante. Quanto più profondamente le opere d’arte si sprofondano nell’idea di armonia, di essenza manifestantesi, tanto meno possono appagarsene”(da “Teoria ed estetica”). Al vernissage della mostra Anima Mundi è seguito il dialogo  tra Maria Alfano, dirigente scolastico del Liceo De Filippis Galdi di Cava de’ Tirreni e Maria Santolia, Dirigente Psicologo Consultorio Dig Asl di Salerno. Qui il flou, che ci piace associare a tanta musica del secolo breve, a quel “suono incrinato” che la contraddistingue, alla musica marina, fluida, quale è il Tristan und Isolde wagneriano, a quell’ accordo che non può essere incasellato, agglomerato sonoro più studiato e discusso dell’intera armonia, non il simbolo del sortilegio, ma il sortilegio stesso è stato solamente sfiorato. Le due relatrici hanno illustrato le proprie esperienze, l’ascolto, le riflessioni sui casi, ma si è sforato nell’omosessualità, nel voler cambiare decisamente “casella”, quelle “caselle” costruite da un cristianesimo fatto di veti, che hanno posto fine alla ricerca, appunto, dell’anima gemella oltre ogni muro, illustrato nel Simposio di Platone nel mito raccontato da Aristofane. “Tanto può far la scuola” – ha affermato la dirigente Maria Alfano, la quale lascia sempre la porta aperta per qualsiasi domanda, qualsiasi dialogo, qualsiasi confessione. Se la musica del Novecento il suo flou l’ha costruito sulla supremazia del timbro che non è volta, come si è creduto, a disegnare complessi musicali vaghi e imprecisi, ma è un flou pensato e realizzato attraverso situazioni strutturali, di una precisione assoluta, tale dovrà essere la costruzione di una produzione così prestigiosa quale è L’Arte per la Giustizia. E’ inammissibile che il conservatorio, ovvero la massima istituzione musicale, oggi università, che laurea i propri alunni, attraverso numerosi esami divisi in trienni e bienni magistrali, fa ricerca, immagino istituisca dottorati e tanta, infinita produzione, concerti, opere, masterclass, tavole rotonde, dibattiti e convegni, possa mai licenziare un programma di sala colmo di errori, con arie indicate nella tradizione popolare come “Barcarolle” di Offenbach  o “Il Duetto dei fiori” di Lèo Delibes, o addirittura Georg Friedrich Handel “La Regina della Notte” senza indicare quale aria delle due venga eseguita, quale sia l’opera da cui sia tratta e con l’autore errato. Inammissibile per la sfilza di nomi tra le cui mani il pubblico possa pensare sia passata la bozza, dai responsabili della produzione, ai vari coordinatori, agli assemblatori, ai grafici, quindi il placet del consiglio d’amministrazione, del direttore artistico, una superficialità che ci ha lasciato come nel celebre sestetto del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini “fredda ed immobile come una statua/fiato non restami da respirar….”, perché in questa scuola, qualche anno fa, titoli di opere, arie, ci erano insegnati e richiesti tassativamente nella lingua in cui sono state composte. Superficialità riscontrata, nostro malgrado, anche nelle esecuzioni delle splendide arie scelte. Voce sola è Farinelli evocato dal sopranista Giuseppe Manzo, il quale si è cimentato con due delle arie più intensa della letteratura barocca “Sposa son disprezzata” dal Tamerlano di Vivaldi e “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Haendel, pagine in cui è mancato il fascino proprio del famoso castrato che è il registro ibrido, avvicinabile a quello di mezzosoprano, ma che, chiaramente, era la sua voce naturale, effetto della barbarie, oltre la discutibile scelta di vibrato, di un pianoforte totalmente fuori epoca (è mancato il cembalo) e non pulitissimo, affidato alla pianista Rosalba Vestini. Il programma è andato avanti con l’Offenbach dei “Les Contes d’Hoffmann” con la bambola Olympia, con tanto di chiave di carica, interpretata da Elena Capasso, in cui non abbiamo rinvenuto, nella seconda parte i virtuosismi e acuti nel loro giusto tempo, ma solo un su è giù per le montagne russe al rallenty e problemi d’intonazione anche per il duetto “Belle Nuit” con la Giulietta di Rosita Rendina e la pur ambrata vocalità di Camilla Carol Farias  (Niklausse), che ha dato poi, voce anche alla Cenerentola rossiniana, nella sua aria cult, “Nacqui all’affanno” con il “Non più mesta” privo di liquidità nelle agilità, il tutto tenuto molto a freno dalla pianista. Elena Capasso e Alfonso Pesce si sono trasformati nei due pappagalli, molto “verdi”, del Die Zauberflote mozartiano, imprecisione, poca intonazione, e soprattutto, l’assenza di quella meraviglia, di quella invenzione della gioia che i due hanno costruito, insieme al compositore,  pathendo per l’intera opera. Rosita Rendina non ha avuto la forza di “cantare” i famigerati Fa di Astrifiammante in “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen”, la seconda temibile aria della Regina della notte, arrivandoci per arrampicata, mentre dignitoso compito hanno svolto Rosita Rendina e Camilla Carol Farias, rispettivamente Lakmè e la schiava Mallika , incontratesi teatralmente, come nella barcarolle, con bacio finale, “Dôme épais le jasmin”, sotto i gelsomini bianchi schizzati dal duetto di Lèo Delibes, in cui nel verso finale ritorna l’invito ad andare alla deriva insieme. Ecco che forse intravvediamo l’ostinata e fluida armonia, che si configura come un telos da perseguire, come uno dei luoghi possibili dove stare consapevolmente con gioia, con filìa, insieme a costruire qualcosa in difesa della bellezza.