É un Galileo «terragno», meccanico e operaio, vestito con un grembiulaccio da garzone di bottega, un Galileo inedito e risolutamente controtendenza, quello rappresentato da Marco Paolini nel suo Itis Galileo, in scena al teatro Verdi. I.t.i.s. come «Istituto Tecnico Industriale», perché né la presentazione tradizionale che ce ne danno nei licei classici – che ne enfatizza la portata filosofica, né quella dei licei scientifici – che lo relega ad un capitolo di astronomia storica, colgono di una tale figura l’essenza pratica del suo agire umano. Un ritratto di Galileo con le mani sporcate dal lavoro, non un teoreta contemplativo, non un epistemologo militante, non un baluardo dell’antidogmatismo. Assistiamo perciò ad un Galileo che da «primo precario dell’Università italiana» (che sbarcava il lunario facendo oroscopi) arriva a diventare, per merito, primo ordinario senza titoli («per essere geni – del resto – non serve la laurea»). La messa in scena comincia con un minuto di “rivoluzione”, purtroppo non quella del pubblico che è rimasto attonito, incitato dall’istrionico autore-attore, ma quella della nostra inconsapevole e costante partecipazione al moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole: un viaggio, che, per la sola durata dello spettacolo, coprirà circa duecentomila chilometri di orbita ed un’unica tirata di fiato da parte di un Galileo ora beffardo saltimbanco, ora experitus ostinato e visionario. Così, sul palcoscenico, tra momenti più teatrali ed altri più didascalici, si entra in dialogo con modelli astronomici complessi con semplicità, così, senza accorgersene, prende vita il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», ritrovandoci improvvisamente a disquisire con i suoi tre personaggi, – Salviati, Simplicio e Sagredo – con un Paolini che sa guadagnarsi l’attenzione del suo pubblico coinvolgendolo fin dall’inizio sul proscenio e ammiccando spesso con battute e facili strizzatine d’occhio. La parte seria è più impegnativa: inevitabilmente lo spettacolo incorre in semplificazioni dovute e in parte riuscite, ma è nell’allargare il quadro ad un caleidoscopio di tanti personaggi che in un modo o nell’altro hanno incrociato l’operato di Galileo quali Giordano Bruno, Copernico, Keplero, Thycho Brahe, Campanella, che si tocca con mano la profondità dello spettacolo e di un periodo storico eccezionale. Nonostante tutto, è proprio nell’impersonare quel sagace “praticone e mestierante” capace di irretire papi e dogi, che Paolini dà il meglio di sé dipingendoci un uomo libero di spaziare con lo sguardo attraverso i numeri e il cosmo e al tempo stesso prudente per necessità e per circostanza opportunista, ma sempre mosso da una rigorosa coerenza d’analisi, che, com’è noto, lo porterà finanche a mettere in crisi la perdurante autorevolezza della fisica biblica e tolemaica. Ecco allora che si fa strada l’umanità del dubbio, del mettersi empiricamente in discussione e anche l’umanità tragica della ritrattazione: la sua abiura di fronte al Tribunale dell’Inquisizione del Santo Uffizio ci appare ora come una scelta esistenziale, che chiunque non avrebbe forse esitato a fare, ma che pochi sarebbero stati in grado di sopportare o accettare in prima persona. Il teatro allora ci mostra come la censura prima ancora che nell’Indice dei Libri Proibiti sembra risedere nel nostro addomesticamento al pensiero precostituito, nella nostra inerzia alla verità, nella mancanza di iniziativa concreta nel volerci “sperimentare” in essa o nell’uso improprio e fraudolento che di essa facciamo. É interessante notare come il tanto celebre cannocchiale, congegnato a Padova per osservare le macchie lunari o i satelliti di Giove, avesse trovato mercato soprattutto in ambito militare. A questo proposito, , Paolini ricorda, ripete e dimostra l’assunto secondo il quale «la scienza non produce coscienza», un’asserzione che si scolpisce nella mente in un periodo di bombardamenti e collassi nucleari e che ci mostra un Galileo prima ancora che teknìtes inventore di gadget tecnologici, come un avveduto uomo di coscienza, accorto circa le ripercussioni e le conseguenze che il suo lavoro potrà avere, su di sé in primis e, sulla ventura comunità scientifica, poi. Le potenze cui offerse la sua invenzione non persero tempo ad impiegarlo per scopi militari, ma lui lorivolse verso i segreti spazi celesti ed ecco il Siderus Nuncius per annunciare al mondo le prime scoperte: Giove aveva quattro satelliti e la Via Lattea non era una massa informe ma fatta di mondi lontanissimi, composta da infinite stelle. L’allestimento scenografico scelto è essenziale: oltre ad una sorta di affresco sull’uomo e sull’universo, campeggia al centro un gigantesco filo a piombo, il cui pendolo è una sfera, che internamente racchiude un modellino di ellissi geocentriche, ma che esternamente in tutto somiglia forse ad un pianeta (= “quanto va errando”), o, forse, somiglia ancor più ad una mina: sembra ferma, eppur si muove. «Certe idee sono come mine vaganti», mormora Paolini, dandogli infine una forte spinta. Certe idee si sa che all’inizio un poco oscillano, ma che, come un in pendolo, più sono scacciate, più ritornano, e alla fine, esplosive più che mai, deflagrano. Il finale fa sorridere e dà speranza: la mina diventa un’altalena sul mondo sulle note salvifiche della I suite di Johann Sebastian Bach per cello e la Cantique de la promesse di Jacques Sevin. Applausi scroscianti del pubblico e repliche questa sera elle ore 21 e domani alle ore 18,30.
Olga Chieffi