Rino Mele
Una sedia lungo la parete e, poco distante, una grande fotografia della stessa sedia. Leggermente più in alto, sulla destra, un brano del dizionario inglese sul vocabolo chair, sedia. É un’opera di Josef Kosuth, del 1966, il titolo è “Una e tre sedie”. Un’opera che deriva da un’altra che ancor di più affascinava Filiberto Menna, ed era di Magritte, “L’usage de la parole I” del 1928. Lui viveva tra i segni dell’arte accettandone con entusiasmo la decostruzione per riformularla su un diverso versante, quello dello sguardo, del pensiero critico, del dolore che ci segna nell’irraggiungibilità degli oggetti, le cose che la mano di un dio sottrae e rivela. Il momento più maturo della vita di Filiberto Menna fu quello in cui scrisse per Einaudi (era il 1975), La linea analitica dell’arte moderna, in cui tentò di rappresentare l’amore illimitato per la semiotica, il suo eretico vivere il mondo sapendolo già consumato nei segni. Parlandone, lui ne riassunse così il senso: “L’idea di base è questa: l’arte moderna nasce dall’acquisizione teorica e operativa della natura convenzionale ed astratta del linguaggio artistico”. La prima conseguenza era la consapevolezza (che pervade tutto il Novecento, ma già prima, con Van Gogh) della distanza tra la parola e le cose, il linguaggio e ciò che crediamo reale. Menna vedeva la macchina feroce dell’arte come un gioco e in quei corridoi di simmetrica trasparenza elaborò la sua teoria. Ha avuto a Salerno negli anni Settanta un prestigio e una forza aggregatrice enormi. Era nato leader: mi raccontava che da ragazzo – gli piaceva giocare a calcio, in attacco – gli amici lo chiamavano immediatamente a dirimere questioni e alterchi, a far da paciere o a giudicare controversie, gli riconoscevano il ruolo particolare di semplificare i problemi e scioglierne i nodi, suggerire nuove prospettive. Ci conoscemmo meglio nel 1969, o l’anno successivo, avevo un piccolo agguerrito teatro sperimentale (K TEATRO) e Filiberto Menna aveva letto una breve nota critica sul “Mattino” in cui si metteva in evidenza lo scollamento antinaturalistico cui sulla scena sottoponevo il gesto, liberandolo dalla specularità con la parola. Poco dopo ci fu l’esplosione della Rassegna Teatro Immagine che è stato l’unico momento di legame reale della nostra provincia alla cultura europea, lui portò Giuseppe Bertolucci a Salerno ed entrambi promossero l’entusiasmo di Guerritore, presidente dell’Azienda di Soggiorno. Così nacquero i primi anni indimenticabili della Rassegna, progressivamente tradita. Tra i suoi amici più cari Achille Bonito Oliva, con lui svolgeva un infaticabile duello, Filiberto se ne faceva un nemico, e più l’amava. Trascorremmo alcune estati luminose e indimenticabili a Capriglia nell’austera grande casa di Ugo Marano che preparava le suo immaginifiche “Feste delle Idee”. Filiberto vi restava anche la notte e passava ore intere, in quell’astratta solitudine, a riempire risme di foglietti (finivano col sembrare copie sgualcite di tarocchi) per i suoi futuri libri, progetti, articoli. La mattina in cui entrò in ospedale per non uscirne più fu pubblicata un’intervista che gli avevo fatto sul “Giornale d’Italia” e lui ebbe il tempo di leggere, mi chiamò a telefono, prendemmo appuntamenti impossibili. A quel testo misi una cornice, lo regalai alla Fondazione “Filiberto Menna” quando era presidente Pino Cantillo (altro personaggio a lui molto caro). Fu messo in evidenza, su un muro bianco, poi chissà dove s’è nascosto. In quel foglio era la sua ultima voce, diceva cose nuove: che lui pur avendo amato moltissimo le arti visive si trovava ora – nella ricerca dell’essenzialità, della purezza del pensiero – a sentire, come forma espressiva più alta, la poesia. L’idea della morte gli era familiare, un giorno accanto al titolo di un mio articolo, scrisse “Dall’Ade. Filiberto”, con la sua grafia leggera, che sembrava ornare il pensiero, e sfuggirgli. Eravamo amici, parlavamo poco perché, sorridendo, ci eravamo già detto molto. Quante volte dopo cena, a casa del padre, ci fermammo a giocare a carte, le coppie erano sempre le stesse, Filiberto e la madre Gemma, di fronte il padre Alfonso – il Sindaco – e io, in quella grande stanza da cui, a sera, si vedeva il mare come un deserto. (oggi è il mio compleanno, sollecitato da Olga Chieffi mi sono fermato, un istante – ora che da tempo sono diventato più vecchio di lui – a parlare col mio amico, il testardo domandare delle ombre)