di Olga Chieffi
Questa mattina, alle ore 11, il teatro Verdi di Salerno apre i festeggiamenti del centocinquantenario della scomparsa di Gioachino Rossini, nume tutelare del nostro massimo, con Riccardo Canessa, reduce dalla Sonnambula belliniana al Tiroler Festspiele di Erl, e il suo Opera Talk Show, incentrato sul Barbiere di Siviglia, che saluterà la sua prima il 7 dicembre. Lo spettacolo, che verrà replicato anche alle ore 21, vedrà il regista napoletano sul palcoscenico in “duo” col fido pianista Maurizio Iaccarino, discernere delle due massime opere italiane incentrate sul personaggio di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, quella di Giovanni Paisiello, datata 1782 e quella di Gioachino Rossini del 1816. Sappiamo che Rossini prese le sue precauzioni facendo stampare nel libretto di sala il famoso “Avvertimento al pubblico”, in cui svelava pubblicamente a chi non l’avesse saputo come la sua nuova opera facesse riferimento al celebre Barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello, che dopo il debutto a San Pietroburgo del 1782 era stato dato con successo in numerosi teatri europei ed italiani. Tale relazione era del resto mal celata nel titolo originale, Almaviva, ossia l’inutile precauzione. L’atteggiamento del pesarese farebbe quasi pensare ad una sfida nei confronti dello stile buffo di gran moda nel secolo precedente, da cui il nuovo astro dell’opera italiana intendeva uscire vittorioso. Ma forse non accadde nulla di tutto questo, e all’origine di questo confronto, che Rossini sopportò malvolentieri, fu la nota settima musa dei compositori italiani, cioè la fretta. In tarda età il musicista rivelò che fu il Duca Cesarini Sforza, impresario dell’Argentina, ad imporre il libretto già utilizzato da Paisiello, consentendo che si cambiasse la natura di qualcuno fra i brani – “un terzetto [ridotto] a un duetto, un quartetto ad un’aria e così via”. Su questo testo, e non sulla commedia originale di Beaumarchais Le Barbier de Séville, ou la Précaution Inutile del 1775, fonte di ben tredici opere, si basò Cesare Sterbini. Ciò è confermato da un confronto anche superficiale tra la struttura dei due lavori: in molti brani – dalla serenata di Lindoro-Almaviva, all’aria della calunnia di Basilio e il duetto tra Don Alonso-Almaviva e Bartolo (“Pace e gioia”) – Sterbini non si prese quasi la briga di differenziare adeguatamente i propri versi. Quanto alla velocità di Rossini nell’assolvere le commissioni, basti ricordare le dichiarazioni rese a Michotte nel corso di un celebre incontro parigino con Richard Wagner nel1860, tutto era pronto in tredici giorni (ridotti a dodici in una lettera a Dall’Argine del 1868), e forse ce ne volle qualcuno di più, ma certamente non oltre i venti. Per riuscire nell’impresa il compositore inserì tra le seicento pagine della partitura autografa diversi “numeri” in cui riutilizzò spunti melodici, oppure adattò brani da alcune sue opere precedenti, come il Sigismondo (“Piano, pianissimo”, Introduzione), l’Aureliano in Palmira (“Ecco ridente in cielo” di Almaviva, e “Io sono docile”, Andante della cavatina di Rosina), Cambiale di matrimonio (duetto tra Figaro e Rosina), Signor Bruschino (aria di Bartolo), fino alla cantata giovanile Egle e Irene (terzetto fra Rosina, Almaviva e Figaro). Poco si sa intorno all’ouverture originale su temi spagnoleschi, della cui esistenza persino si dubita. Tutto invece è noto dell’attuale ouverture, inserita in occasione della ripresa bolognese del Barbiere nell’agosto del 1816. Il brano veniva dall’Aureliano in Palmira, rappresentato a Milano nel 1813, ed era stato utilizzato anche a Napoli nel 1815 per Elisabetta, regina d’Inghilterra prima di prendere posto definitivamente dov’è divenuto famoso. Le riflessioni di Riccardo oltre che dell’ attento confronto tra i due Barbieri che riveleranno il grande compositore e il genio, vivranno dell’ immancabile nota napoletana. Infatti, Canessa ci riferirà anche del confronto di Rossini con la tradizione della più tipica commedia partenopea, e della vis comica di Raffaele Casaccia, padre del più famoso Carlo, detto ‘o Casacciello, rappresentante di una famiglia di specialisti del ruolo di buffo napoletano, che fece sua la parte di Bartolo nel nostro musicale idioma.