Questa sera, alle ore 20, dopo lo stellare coreutico prelude con Roberto Bolle, alle ore 20, si ritorna sul belvedere di Villa Rufolo, per la prima serata lirico sinfonica della LXXII edizione del Ravello Festival con l’Orchestra del Teatro di San Carlo diretta da Giacomo Sagripanti e il soprano Marina Rebeka per l’immancabile omaggio a Puccini
Di Olga Chieffi
Si ritorna alla musica da “vedere” stasera, alle ore 20, sul belvedere di Villa Rufolo, per la prima serata lirico-sinfonica della LXXII edizione del Ravello Festival, che saluterà protagonista l’Orchestra del Teatro di San Carlo, diretta da Giacomo Sagripanti e il soprano Marina Rebeka, per l’ ormai omaggio a Giacomo Puccini di prammatica. Non si può tacere, però, delle emozioni suscitate nel prelude a questa edizione, firmata da Maurizio Pietrantonio, nel doppio ruolo di direttore artistico e generale di una fondazione che ha ora al suo vertice Alessio Vlad, affidata a Roberto Bolle & friends, un gala composito, inaugurato dal “Pas De Deux – Thais” in cui l’etoile piemontese ha danzato con Maria Eichwald, sua partner anche nella seconda parte della serata in “Kazimir’s Colors” di Mauro Bigonzetti, comunicando attraverso corpi e non disdegnando attraverso i corpi e le luci di vivificare anche le mura dell’auditorium Niemeyer tra ombre e luci, ma con coreografie di agevole comprensibilità con movimenti ora fluidi, ora spigolosi. L’étoile della Scala danza è stato in coppia, poi, con l’ecclettico e giovanissimo artista Toon Lobach nel pezzo ideato da Claude Brumachon e ripreso in seguito dal suo assistente Lamarch dal titolo “Les Indomptés”. Movimenti in “armonico equilibrio” si ripetono compulsivamente mentre raccontano di complicati ed indefiniti rapporti tra gli esseri umani. Toon Looch riappare in seguito insieme alla danzatrice freelancer Casia Vengoechea per portare in scena “II”, sulle musiche del collettivo Soundwalk Collective, i due protagonisti interagiscono tra loro tramite un tipo di movimento che, morbido e sinuoso, seguendo il ritmo incessante della musica, bruciante e vivacissima coreografia, con luci ad alta stimolazione. Un altro solo per Bolle su musica di Max Richter, Chiaroscuro, di grande urgenza emozionale, interpretazione costruita su di un microscopico controllo energetico, sul decoro e sulla limpidezza e finale con dedica ad Ezio Bosso, con “Rain, in Your black Eyes”, brano lungo, il cui orizzonte diventa un palcoscenico, su cui la luce danza per contendere il campo all’oscurità, una corsa all’impazzata nello spazio infinito dei pensieri. Eccezionali le interpretazioni, quindi, dei passi di repertorio da parte di Inèes Mcintosh e Daniil Simkin per Le corsaire e di questo ultimo di Les Bourgeois, veloce ed eccitante, proiettato al futuro, che trova nel suo talento un diapason dalle infinite potenzialità della danza, mentre la ballerina ha poi incontrato Adhonay Soares da Silva nel pas de deux del Don Quixote, un Basilio atletico, che ha poi diviso il parquet con Camilla Cerulli per Le fiamme di Parigi, con rilievo per la velocità dei tempi e la grande spettacolarità, affidata ad exploit e tour de force altamente virtuosistici. Stasera, invece, Giacomo Sagripanti, darà l’attacco al Vorspiel dei “Die Meistersinger von Nürnberg”, che sintetizza e riassume in espressione musicale, come forse mai accade in altra opera di Wagner, tutto lo spirito e i contrasti dell’azione scenica sino alla finale, solenne celebrazione a lode dell’arte tedesca. Musicalmente, il preludio è costruito su alcuni dei temi fondamentali, che ritorneranno nel corso dell’opera: ai due temi principali legati alla maestà della Corporazione, scandito il primo in una marcia ostinata e metodica di accordi poderosi, simile il secondo a una squillante fanfara, si intrecciano uno dopo l’altro, con sfumature cangianti, i motivi dell’amore di Walther von Stolzing, cavaliere ardente di vita e di poesia. A seguire, l’ouverture del Die Fliegende Hollander. Ciclicamente, il finale dell’opera si collega all’inizio e trova il suo suggello nell’Ouverture. Il gesto impetuoso, perentorio, squarciante che l’apre, non evoca soltanto la descrizione naturalistica di una tempesta che infuria, ma è piuttosto il segnale di una rabbiosa tabula rasa di tutto l’apparato operistico tradizionale. Popolare il brillante vorspiel al terzo atto del Lohengrin che nelle sue figurazioni di fanfare ascendenti evoca i “solenni rumori delle feste nuziali” che accompagnano i due protagonisti, attacco sinfonico strettamente legato al cerimoniale della camera nuziale e al grande coro che segue, Treulich geführt ziehet dahin, benedizione d’amore condotta dal Re Enrico e dal popolo brabantino. Secondo Beaudelaire anche senza conoscere il libretto del Tannhäuser solo ascoltandone l’ouverture si può capire cosa rappresenti: il conflitto fra Bene e Male, fra il Canto del Cielo e il «canto furioso della carne». La prima parte è dominata dall’incedere del Tema dei Pellegrini un corale che giunge al giubilo splendente grazie a un percorso tonale ascensionale e allo schiarimento dei registri degli archi (violoncelli, poi viole, poi violini). Nella seconda parte emerge il Tema del Venusberg figure ritmiche e armoniche distribuite fra viole, violini acuti e di- visi, fiati in pianissimo accentuati da leggeri colpi del cimbalo, divisi in periodi che scattano a gruppi di note ascendenti che si perdono e si ritrovano in abbracci inestricabili, sopra un tessuto ininterrotto di tremoli e trilli, frequentemente modulati, fanno percepire i fascini delle sirene con una sonorità così languidamente amorosa che il ricco repertorio della musica esistente non offriva ancora: immagini ardite, effetti sorprendenti, attrazioni sensuali incitanti, attrazioni vertiginose. La seconda parte della serata sarà invece dedicata interamente a Giacomo Puccini, in occasione delle celebrazioni del centenario della scomparsa, con la partecipazione del soprano Marina Rebeka. Il portrait principierà la reale ricercatezza e profondità musicale de’ La Rondine, con “Chi il bel sogno di Doretta” che viene cantata prima dal poeta Prunier, poi da Magda: il testo tratta proprio di come niente al mondo abbia importanza come l’amore (“che importa la ricchezza se al fine è rifiorita la felicità”). Ed ecco Manon, e la casetta degli innamorati che vale solo come ricordo impossibile, come straziato rimpianto del luogo e della stagione dell’amore che Puccini rinuncia a figurare e a cantare. Esempio ne è “In quelle trine morbide” una pagina fatta di desolazione, malinconia e struggimento per una “dimora umile”, che l’autore non ci ha mostrato e dove la melodia sa farsi teatro. Il preludio, poi, che apre il terzo atto dell’Edgar è un poema sinfonico in miniatura, che vuole simboleggiare il conflitto e la successiva risoluzione nell’anima del protagonista, con il tema emergendo da tenebrose profondità, evoca le passioni perverse, svanendo non appena comincia a delinearsi una nuova idea sopra un basso continuamente gorgogliante. La Rebeka sarà, poi la Mimì che racconta di essere una che ricama, a cui piacciono i fiori, che prega ma non va sempre a messa: e dice di aspettare lo «sgelo», per inebriarsi del primo sole di aprile (“Sì, mi chiamano Mimì”), uno “sgelo” anticipato dal cuore, che è come il motore nascosto ma di cui si sente il rombo in Bohème. Il Tristan akkorde, apre le porte del secolo breve, ma s’intuisce chiaramente, e con quello stesso flou dei legni ad ancia doppia, nella Dante symphonie lisztiana: in Manon nell’intermezzo, che verrà proposto, con il suo ripieno armonico discretissimo fatto ora di violoncelli col loro moto cromatico e alla seconda e terza viola, le inquiete fluttuazioni, l’ambientazione armonica in settime che non risolvono, che non “possono” risolvere mai, sarà un bel sentire wagneriano, anzi tristaniano, sicuramente un “esperimento operistico” dei tanti portati avanti da un Puccini, che qui non ha ancora ben individuato un proprio percorso artistico ed estetico. Non poteva non elevarsi il “Vissi d’arte” la preghiera, di Tosca che ripercorre la sua vita, con quelle frasi discendenti che esprimono smarrimento senza speranza. Finale con Madama Butterfly, a cominciare dall’Intermezzo che pone in evidenza il contrasto tra il decoro della casa del primo atto, dove tutto era agitazione e vivacità e la situazione di degrado attuale. Quindi, l’aria che maggiormente sposa il paesaggio ravellese: “Un bel dì vedremo”: guardo all’orizzonte, orchestrazione rarefatta, melodia sospesa a mezz’aria tra sogno e realtà, tra quelle due parole, “celia” e “morire”, che anticipa, come è abitudine del genio toscano, a nostro parere, il jigai.