Rino Mele
La bellezza continua a essere la soglia del terrificante, la
vertigine che si presenta all’improvviso e apre una scena
vuota, su cui ci trascina.
Le Sirene sono il mito della bellezza che stordisce, e le loro
labbra lo spazio stretto da cui respira la morte, il desiderio di
tornare a essere baciati senza mediazioni dalla bocca
originaria, dietro cui le madri, nascoste, sono in attesa.
Sugli
scogli, nel XII libro dell’Odissea, con ali e zampe d’uccello,
sono circondate da ossa umane. Così le fa parlare Omero:
“Nessuno mai s’allontana di qui con la sua nave nera, / se
prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce”.
Ha scritto così bene bene Jean-Pierre Vernant, 1999: “Le
Sirene rappresentano insieme il richiamo del desiderio di
sapere, l’attrazione erotica – la seduzione stessa – e la
morte”. Esse parlano con Ulisse “come se fosse già morto.
O piuttosto come se si trovasse in un luogo e in un tempo in
cui la frontiera fra vivi e morti, luce della vita e notte del
trapasso, fosse ancora indecisa, sfumata, oltrepassabile”.
In esse l’erotismo più arso si fonde col piacere della
conoscenza.
Uccelli marini col volto e il collo di donna, volano intorno a
Ulisse legato all’albero della nave, gli dicono la sua morte, il
desiderio.
Cantano, la tonalità della voce, che s’alza e abbassa, tocca
Ulisse come dita amorose, pervade la sua pena.
I marinai remano, lui è legato strettamente come in un
sudario, come i morti che non possono più muoversi e il
tempo li trascina lontano: questa è la disperazione che
Ulisse conosce nell’incontro con le sirene: la condizione del
morire.
I suoi compagni remano e vedono le Sirene affollarsi intorno
a Ulisse, ferme a mezz’aria sbattendo l’ali, ma non ne
hanno alcun turbamento perché, con le orecchie chiuse
dalla cera, non possono udirne il canto. Ulisse impazzisce
di desiderio risentendo la voce materna prima della nascita,
che nessuno è riuscito a sentire più.
Infine, da uccelli marini col volto di donna, furono
trasformate, dalla stessa necessità del mito, in donne con la
parte inferiore di un pesce, sempre donne a metà, e
bastava per far struggere d’amore.
Petrarca parlandone nel sonetto 167, paragona l’enigma
della Sirena a Laura che ormai decide il tempo che a lui
rimane come un’imperscrutabile Parca: “Così avolge et
spiega / lo stame de la vita che m’è data, / questa sola fra
noi del ciel sirena”.
Già prima
di lui, Dante aveva mostrato l’ambiguità e
l’enigma della Sirena medievale in un folgorante sogno di
rarissima potenza: siamo nel quinto girone del Purgatorio
(dove penano gli avari), è l’alba, in cui i sogni spingono
verso il giorno che incombe la loro verità. Dante s’era
addormentato, portando la sua pena tra i morti. Tra i morti
sogna una donna che, pur nella disaffezione del corpo
mostra una grande forza di seduzione: i suoi difetti fisici si
ricompongono in una sorta di restauro del desiderio, lei
smette di essere “balba”, balbuziente, e intona un
dolcissimo canto, che cattura Dante e sorprende lo stesso
Virgilio doppiamente presente (sia nella realtà narrativa del
quinto girone che sulla scena del sogno). È la canzone della
“serena” (della Sirena) e del desiderio: “Io son”, cantava, “io
son dolce serena, / che i marinari in mezzo al mar dismago;
/ tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse dal suo
cammin vago / al canto mio; e qual meco s’ausa, / rado sen
parte; sì tutto l’appago!”.
Omero aveva parlato di queste divine seduttrici senza
descriverle. Molti secoli dopo, lo farà Ovidio che, nel quinto
libro delle Metamorfosi, si rivolge a loro: “Perché voi, figlie
del fiume Achelòo, avete piume e zampe d’uccello, ma volto
di donna?” Per Ovidio, le Sirene non erano all’inizio che
compagne della giovinezza di Proserpina, figlia di Cerere e
Giove. Ma, quando Proserpina fu rapita dal fratello del
padre, Ade – re degli Inferi – e la madre Cerere impazzendo
si mise a cercarla dovunque la disperazione la spingesse,
anche loro, le compagne, precipitarono in quell’affanno e
nell’estendere la loro ricerca sul mare chiesero agli dei di
poter “posare sui flutti remigando con le ali”: nel miracolo
delle metamorfosi, furono accontentate: virginei vultus et
vox humana remansit (“rimase ad esse il volto di fanciulle e
voce umana”).
C’è un soavissimo libro di Gian Paolo Caprettini, uno di quei
libri che sarebbe bello (se fosse possibile) leggere
dormendo per penetrarne meglio il senso, ed è “Simboli al
bivio” 1992. Termina così: “Nel mostro, nell’ibrido
(minotauro, centauro, sfinge, sirena, ippogrifo), nell’animale
fantastico l’uomo tenta di riconciliarsi immaginativamente
con l’animale, assegnandogli due parti opposte ma
accumunate nella stessa concezione dell’universo: gli angeli
e i demoni. E sogna l’eternità con la fenice, la vendetta
spietata con il drago, la verginità unita con la sensualità con
l’unicorno, e vaneggia composizioni impossibili come il
gatto-agnello di Kafka, o come il medico-cavallo di cui parla
Freud nell’Interpretazione dei sogni”.
(Alla Galleria “Taide” di Pietro Lista a Salerno, Rino Mele con Filiberto Menna, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva.
La fotografia dovrebbe essere degli anni
1979-1980)
1979-1980)