De Filippo e l'amata Positano - Le Cronache Ultimora

di Vito Pinto

Quarant’anni fa, il 31 ottobre 1984, per Eduardo De Filippo vi fu l’ultimo fondale di scena: un drappo di seta viola e una croce dorata nella camera ardente al Senato, dove era entrato nel 1981, nominato “Senatore a vita” dal Presidente Sandro Pertini. Si chiudeva, così, la vita di uno dei più grandi uomini di teatro che aveva saputo narrare Napoli e la gente comune come nessun altro. Cercare, però, di trovare aggettivi per individuarne la personalità e la poliedricità del suo essere uomo di teatro è ricerca vana: per tutti era ed è semplicemente Eduardo.

Ricordava Andrea Camilleri: «L’immagine che uno aveva di Eduardo era di un uomo corazzato, un uomo che si difendeva anche recitando la parte che si era assegnata lui stesso nella vita. Non so come nel 1960 ero preoccupato perché una delle mie figlie aveva la febbre alta; non pensai all’incidente della bambina di Eduardo e gli dissi che ero un po’ preoccupato per mia figlia. Rispose: “Io l’ho persa una figlia”. E mi raccontò minutamente come lui aveva vissuto la cosa e si mise a piangere. È stata una cosa inenarrabile, penosa».

Una delle località maggiormente frequentate da Eduardo fu certamente Positano. Il rapporto che ebbe con questa città fu forte e antico: la conosceva già prima dell’ultima guerra e alcuni suoi amici, come Vittorio De Sica, Andreina Pagnani, Cesare Giulio Viola, avevano comprato casa, tant’è che anche lui ne voleva comprare una appena se ne fosse presentata l’occasione. La guerra con le sue distruzioni e i suoi dolori fece rinviare ogni proposito a tempi migliori. Il sogno si realizzò, però, a pace fatta, quando l’amico banchiere Vittorio Astarita gli offrì l’acquisto dell’isolotto di Isca, al largo di Marina di Cantone. «La bellezza, la unicità del posto – ricordava la signora Isabella Quarantotti, moglie di Eduardo – la piccola casa assai graziosa arredata con mobili di bordo di un lussuoso yacht inglese in disarmo, il prezzo d’affezione costituivano una forte tentazione, alla quale Eduardo non seppe resistere». E così i coniugi De Filippo divennero dirimpettai di Leonid Massine, che abitava nella poco distante isola maggiore de Li Galli. E tra loro vi furono rapporti di amicizia e stima, con scambi di visite. Era, infatti, l’estate del 1959 quando Massine andò a cena dai De Filippo: «fu un ospite incantevole, raccontando una infinità di storie sulla Russia e sulla vita artistica a Parigi». Invitò poi i due per un the il giorno dopo nella sua isola. I De Filippo ci andarono con il “San Pietro”, un bel gozzo comprato da Eduardo, con a prua una piccola polena rappresentante la testa del Santo scolpita in legno. Ricordava la signora Isabella: «Arrivammo ai Galli verso le quattro di uno splendido pomeriggio estivo, reso più azzurro e più allegro dal maestrale». Furono accolti da due vivaci cagnolini; Massine era sotto i pini, seduto ad un tavolo di legno grezzo pieno di carte. Stava lavorando, spiegò, ad una coreografia per un balletto da mettere in scena a Perugia alla fine di settembre.

Gli anni passavano e, estate dopo estate, le presenze di Eduardo a Positano si intensificarono. Trovava quel gruppo di case arrampicate sui monti, un luogo ideale per i suoi “ozi” lavorativi. Qui, infatti, scrisse due commedie: la prima nel 1958 “Il figlio di Pulcinella” e la seconda nel 1973, certamente tra le più note del teatro di Eduardo “Gli esami non finiscono mai”.

La prima vide la luce a Casa Passalacqua, dimora dell’amico ing. Giulio Mascolo, dove Eduardo era ospite. In un articolo per il quindicinale locale “Il Duca”, la sig.ra Isabella ricordava: «Eduardo si svegliava presto e alle 6,30, dopo una tazza di caffè, era già al tavolo di lavoro. Lavorava con grande intensità, interrompendosi soltanto per il pranzo preparato da Gerardina, una delle più brave e geniali cuoche di casa privata. Poi riprendeva il lavoro sino alle sette di sera». Quindi, seduto sul terrazzo di Casa Passalacqua, insieme alla moglie Isabella, in quelle ore del tramonto Eduardo godeva dell’aria e dello splendido panorama sull’azzurro mare di Positano. Ricordava la moglie: «Chiacchieravamo guardando il mare, ascoltando il canto degli uccelli, sempre così intenso al tramonto e…aspettando. Aspettavamo un topo di campagna, dalla folta pelliccia dorata e le zampette agili, che ogni santa sera si presentava tutto indaffarato svoltando l’angolo sinistro del tetto e poi, trotterellando di buon passo, si avviava verso l’angolo opposto, dove si tuffava in un ciuffo di gelsomini e spariva». Allora Eduardo si girava verso la moglie e le diceva: «Isabè è ora di andare a cena». E andavano in uno dei ristoranti del paese, dove Eduardo incontrava gli amici, tanti, tra i quali Gennaro ‘o Polese, ‘o Capurale, Carlino Cinque, Tobia Savino de “Il covo” e i Rispoli della “Buca di Bacco”. Cesare Feraboli, indimenticato maitre della “Buca”, ricordava: «Ogni volta che Eduardo veniva al nostro ristorante, al termine doveva passare in cucina a salutare e ringraziare mia moglie Maria. Una volta dall’America mi inviò una cartolina che diceva “qui si starebbe veramente bene se ci fossi tu e il tuo ristorante”».

Con gli amici spesso Eduardo faceva le 2/3 di notte giocando a scopa e a sette e mezzo, con relativi “sfruculiamienti”.

Giovanni Romano, figlio di Pasquale e Natalina, con bar ai Mulini di Positano era un ragazzino «piccolino, magro, biondo, con un sorriso timido e radioso insieme, lavava i bicchieri dietro al bancone, deponendoli poi accuratamente sopra un panno bianco». Giovannino, come tutti lo chiamavano, diede l’avvio alla signora Isabella di scrivere il racconto “Peppino Girella” che piacque non poco ad Eduardo, il quale decise di trasformarlo in commedia televisiva, scrivendo la sceneggiatura insieme alla moglie nella loro isola di Isca. Giorno dopo giorno il lavoro divenne un affresco corale in sei episodi della Napoli e dell’Italia dei primi anni sessanta, non più “milionaria”, ma ancora ricca di generosità, umile e onesta.

Il lavoro fu terminato nel 1962 ed Eduardo cominciò a cercare un ragazzo che impersonasse l’eroe dello sceneggiato messo in onda dalla Rai in sei puntate. Ricordava la signora Isabella: «Ci furono giorni di estenuanti quanto deludenti provini presso la sede Rai di Napoli, alla ricerca del personaggio, con frotte di ragazzini che non avevano i requisiti che Eduardo voleva dal suo personaggio: bella presenza, naturalezza, furbizia e ingenuità, intuito e intelligenza». Poi un giorno Eduardo si ricordò di aver incontrato a Positano un ragazzino simpatico, che gli piaceva molto per il suo modo di fare; un ragazzino «stranamente bello, un viso irregolare, gli occhi grossi e distanti fra loro, le labbra tumide e i denti bianchi, che quando sorride gli illuminano tutto il volto». Era Giuseppe, figlio di Antonietta Fusco «una bella donna con occhi lucenti come due stelle», che all’epoca lavorava in casa dell’ingegnere Giulio Mascolo, amico dei De Filippo. A distanza di anni il professore di matematica Giuseppe Fusco, alias Peppino Girella, ricordava: «Non avevo ancora 11 anni, le giornate le passavo al mare sul tratto di spiaggia di Positano dove Gennaro o’ Polese affittava il suo gozzo, ad ospiti occasionali ed io, spesso, mi imbarcavo con questi ospiti per tenere il timone del gozzo. Per qualche settimana gli ospiti di turno furono Eduardo ed Isabella ed io, come di solito timoniere del gozzo, non sapevo chi fossero. A fine estate, dopo aver contattato i miei genitori, mi portarono negli studi televisivi di Napoli per sottopormi ai provini per il loro “Peppino Girella” che avevano scritto nella primavera precedente. Fu una giornata estenuante, mi trovai immerso in una folla di bambini della mia età che a turno dovevamo recitare delle battute di fronte alla telecamera. A sera tardi Isabella, dopo aver lasciato Eduardo ai Colli San Pietro dove lo aspettava un signore che lo avrebbe riportato a Nerano e da lì alla sua isola, mi riaccompagnò con la sua Fiat 600 a Positano e solo prima di scendere dalla macchina mi disse che ero stato scelto per fare ‘Peppino Girella’».

Passarono 15 anni ed Eduardo, nelle stanze dell’esclusivo San Pietro di Carlino Cinque, scrisse “Gli esami non finiscono mai”. Gli anni trascorsi, però, pesavano e non poco al commediografo: la vista si era affievolita e l’artrosi alle mani gli rendeva difficoltoso stringere la penna. Ma questa commedia se la portava dentro dal 1948. «Ne parlava quasi ossessivamente – ricordava la signora Isabella -. Mi sedevo accanto a lui, che mi leggeva le scene appena scritte e mi parlava dei dubbi, dei pensieri e degli entusiasmi suscitati in lui dalla stesura degli ‘esami’. La gioia e il privilegio che sentivo nell’ascoltarlo erano enormi, forse anche maggiori di quelli che provai in seguito quando la commedia andò in scena con il successo che tutti sanno».

L’età che avanzava e qualche malanno impedirono a Eduardo di ritornare a Positano. Ma quando la sua bara fu nella camera ardente del Senato per l’ultimo saluto, qualcuno ricordò una sua frase: «Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male».

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *