Un successo la Vedova Allegra del post lockdown, nonostante le infinite difficoltà di una location quale è lo spazio antistante il Teatro Ghirelli, il service, l’orchestra situata alle spalle dei cantanti, ma che il bel quartetto di voci protagoniste e lo spirito eclettico di Gennaro Cannavacciuolo hanno impreziosito.
Di Olga Chieffi
Coraggio, ci vuole coraggio, “La Vedova allegra” di mercoledì sera, voluta così fortemente in scena da Daniel Oren e dall’intero Teatro Verdi, ci ha invitato tutti a porre in discussione la certezza, la verità, il luogo, per cercare di rimettersi sempre in gioco, per vivere nello spazio, senza misure, del mondo, ad armarci e partire per la giusta causa, che, in questo caso, è stata quella di far ripartire comunque la stagione lirica del Teatro Verdi di Salerno, di tornare a “di-vertirci”. E’ termine particolare il divertirsi, proviene dal latino divertere, che sta per prendere altra direzione, volgere altrove, e mai come l’altra sera abbiamo toccato con mano il voler deviare da questo limbo, in cui ci ha trascinato la pandemia. E questa parola è risuonata anche sul palcoscenico di questa Vedova Allegra, racchiusa in una coppa di champagne dal fine e lascivio perlage, che sappiamo voleva essere assolutamente eliminato dal suo inventore il monaco benedettino Pierre Pèrignon, proprio perché foriero di depravazione del gusto e dei costumi. L’ha pronunciata il nostro Njegus d’eccezione Gennaro Cannavacciuolo, il quale ha rivisto i dialoghi con il Barone Zeta Angelo Nardinocchi, dando sfoggio di estrema eleganza bloccando l’azione a suo piacimento per reinventarla in modo da riprogrammare gli eventi portandoli nel giusto verso, ed ecletticità trasformandosi anche in mirabile “puntacchiere”, nella sua aria “Stasera faccio il Parigin!”. Daniel Oren, al solito ha trovato perfetta identità di vedute con l’impostazione registica di Ermeneziano Lambiase, plasmando la sua direzione su tempi serratissimi e dinamiche guizzanti, ripulendo il suono da qualsiasi muffa languorosa e aprendo, tuttavia, ove necessario, a squarci lirici di grande suggestione, il tutto a rendere piena giustizia a quello che a tutti gli effetti è uno dei grandi capolavori del Novecento. L’Orchestra Filarmonica Salernitana smagliante nel suono, ha risposto con entusiasmo, nonostante qualche inevitabile inciampo, poichè Daniel Oren, posizionato dietro i cantanti ha diretto per il più delle volte di spalle all’orchestra per amalgamare le voci che, diverse volte non sono poche in palcoscenico. In altri casi, bisogna ammetterlo, l’elemento espressivo ha ceduto a un gusto più ingenuo e gioco, come nella Marcia moderato di Valencienne, col caratteristico colpo in contrattempo, un gioco che comunque corrisponde al personaggio della signora assolutamente per bene e tuttavia appassionatamente dedita al f1irt. Un plauso ai protagonisti, che si sono mossi sulla balconata liberty creata da Alfredo Troisi, con Marily Santoro che canta e balla benissimo, e ha schizzato una Hanna Glawari a tutto tondo, ironica e appassionata, languida e volitiva, perfetto contraltare al Conte Danilo, il baritono Mario Cassi, ottimo cantante ma contenuto attore, mentre la Valancienne di Nina Solodovnikova, ha rubato l’occhio dell’intero pubblico presente, nella sua uscita finale in Baby Doll, cogliendo perfettamente anche il lato melanconico del personaggio e tenore sopra le righe certamente Giorgio Misseri, che ha dato vita ad un Camille de Rossillon dalla deliziosa ed assai educata voce. Eccessivo il divario tra i protagonisti e i comprimari, Antonio Palumbo, il visconte Cascada, Nazzareno Darzillo Raul di Saint Brioche, Maurizio Bove, Maria Teresa Petrosino, Sylviane, Christian d’Aquino, Kromov, Valeria Padovano, Olga, e Sara Vicinanza, Praskovia, con Vittorio Di Pietro nel ruolo di Pritschitsch, validi certamente per la rappresentazione messa su dal nostro conservatorio, che pur abbiamo applaudito, ma non certo all’altezza di un cast di questo livello, così come anche il balletto offerto dal Liceo coreutico Alfano I, coreografo da Massimiliano Scardacchi, che ha presentato una fila di cancaneuse dall’altezza diseguale, su cui ha spiccato l’assoluto talento di Maurizio Paolantonio, che inanellando un buon numero di fouettes e salti mortali, ha impreziosito il gran finale dell’opera. Onori anche al coro che preparato da Tiziana Carlini, ha eseguito dignitosamente il suo compito grazie anche a due ghost-meister che nonostante ben mimetizzati in aigrette, abito lungo e frac, abbiamo intravisto tra gli scranni, Lucrezia Benevento e Maurizio Iaccarino. Service di palcoscenico in gravissima difficoltà nel II atto con il Conte Danilo che ha dovuto cantare e recitare praticamente senza microfono, forse un bando serio del comune di Salerno, in particolare in questi eventi importanti sarebbe necessario. Ma, nonostante tutto, il finale è stato veramente brillante e lunghissimo, con un coup de theatre, che ha salutato gli ottoni, guidati dalla tromba di Raffaele Alfano, da l’altra sera soprannominato “hot lips”, per la ripresa del Can Can di Offenbach, ripreso almeno sei volte, in palcoscenico e i ballerini tra il pubblico, in un ideale e prolungato, musicale, caloroso abbraccio. Dal palco ancora una volta l’invito a pervenire a quell’infinito eccesso che possa farci arridere all’impresa, per affermare ciò in cui crediamo, per opporsi alla distruzione di un sogno, un’illusione, risorgendo sempre, dopo ogni caduta.