
di Erika Noschese
L’attimo fuggente. Scena cult. Robin Williams, nei panni del docente di letteratura John Keating, sale sulla cattedra dell’aula in cui sta tenendo la sua lezione. Dopo aver messo entrambi i piedi su di essa, sorridendo, esclama: «Perché sono salito quassù? Chi indovina? Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare. Ecco, quando leggete, non considerate soltanto l’autore. Considerate ciò che voi pensate. Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce.
Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla. Thoreau dice “molti uomini hanno vita di quieta disperazione”, non vi rassegnate a questo. Ribellatevi! Non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno! Osate cambiare, cercate nuove strade!». Ed è così, con una nuova prospettiva, che guardiamo all’attuale “Ruggi” di Salerno. Fino a poche settimane fa ancora si sentiva l’eco delle dichiarazioni del sindaco di Salerno, Vincenzo Napoli, che ha parlato dell’ospedale definendolo “disfunzionale”. Il presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della provincia di Salerno, Giovanni D’Angelo ha invece una aspettativa che guarda al futuro possibile. La struttura può in parte essere salvaguardata, in parte trasformata sulla base delle diverse esigenze, ancora inevase a Salerno e nella Provincia. Ovviamente questo discorso ha valore, secondo il presidente dell’Ordine dei Medici, se esistono condizioni strutturali e funzionali tali che si possa riadattare, senza un dispendio economico di grossa portata. Discorso analogo per altri ospedali vetusti; la scelta è sulla base dei costi, se riadattarlo o piuttosto costruirlo nuovo di zecca, se interamente o parzialmente, se con una destinazione assistenziale analoga o diversa.
Perché c’è così tanta disorganizzazione? Anche in termini di strutture.
«Punto chiave: la vetustà che esiste attualmente nei nostri servizi sanitari. Abbiamo ancora ospedali costruiti a partire da vecchie chiese o conventi, trasformati, ritrasformati, riadattati. In un Paese civile e in un contesto attuale, penso che non sia più accettabile. In Toscana, di fronte alla necessità di creare nuove strutture ospedaliere, dismettendo le vecchie, la Regione, a suo tempo, decise di costruire ed aprire quattro nuovi ospedali, più accoglienti, con nuove apparecchiature e con spazi destinati ad attività commerciali per interni ed esterni. Il 15 gennaio 2016 fu inaugurato l’ultimo dei quattro Nuovi Ospedali: il Noa, Nuovo Ospedale delle Apuane, e gli altri erano stati aperti tra il 2013 e il 2014: Pistoia, Prato, Lucca. Sono ospedali da poco più di 300 p.l., realizzati con il Project Financing, una forma di partenariato pubblico-privato, che può arrivare ad un equilibrio tra finanziamento pubblico e privato. Sono ospedali moderni e ipertecnologici, che mettono al centro la persona e i suoi bisogni. Ovviamente con la costruzione non sono finiti i problemi: bisogna tener conto della organizzazione del personale, delle funzioni ecc. Sono tante le variabili da tenere in considerazione, perché la sorte di un’Ospedale dipende da una serie di variabili, in specie quella umana. L’attività di un nosocomio è una cosa molto complicata al pari della sua gestione».
De Luca vuole farne 10 ora, di ospedali. Tutti nuovi.
«Speriamo che sia così e in tempi accettabili; tutti sarebbero contenti. Operatori sanitari, cittadini, politici. E se già si costruisse in tempi accettabili il nuovo Ospedale Aziendale di Salerno, di cui già si sono fatti alcuni passi importanti, magari insieme ad una trasformazione del vecchio, sarebbe una grandissima cosa».
Ma non è stato riabilitato neanche il “Da Procida”. Il vecchio “Ruggi”, almeno, sarà riabilitato?
«Mi auguro che il “da Procida” possa rimanere ma la sua funzione va rivista: potrebbe diventare un plesso funzionale alle esigenze della città di tipo distrettuale. Del “Ruggi”, come già detto in altro punto, lascerei le parti funzionalmente “vive” che si prestano a svolgere funzioni assistenziali in coordinamento con le attività del nuovo Ospedale Aziendale, peraltro viciniore e della rete ospedaliera, ad esso congiunte.
Ma queste decisioni è giusto che siano altri a prenderle, quelli che sono in possesso di una moltitudine di dati e variabili, purtroppo a noi non noti. Non dimentichiamoci che mancano tante RSA e tanti altri servizi aggiuntivi, magari per le attività possibili sul territorio».
E se invece lo demolissero? Se ne sta già parlando.
«Non sono d’accordo. Perché lo dovrebbero demolire? Può darsi che demoliscano la parte più vecchia. Ci sono degli ambienti del vecchio ospedale “S. Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona”, che non sono più riportabili alle caratteristiche che le strutture sanitarie moderne oggi devono avere. Per esempio, il corridoio di collegamento tra la Torre e l’altro polo non è funzionale e forse pericoloso. In quel percorso, di notte, una dottoressa che deve fare una consulenza al di fuori della Torre, deve percorrere oltre 400 metri, in solitudine e con la luce della luna se c’è e se sufficiente. Ci sono delle soluzioni che un tempo, quando erano state fatte, sembravano architettonicamente belle. Oggi i tempi sono cambiati: una volta non ti dovevi porre il problema della dottoressa che veniva assalita, oggi è il primo rischio che si corre e quindi quel percorso che ti sembrava normale e funzionale, ad oggi non lo è più. Oggi, nel tuo lavoro professionale, devi creare anche una struttura o una condizione, che ti protegga rispetto all’esterno. Ci sono tante cose che cambiano nel tempo».
Si troverà mai una soluzione adeguata?
«Bisogna procedere con la consapevolezza, che solamente gli addetti ai lavori possono avere. Parlare male è molto facile. Oggi stiamo finalmente ricevendo i fondi che spettavano da anni alla nostra regione. Ma abbiamo dovuto aspettare oltre dieci anni durante i quali non vi erano disponibilità, se non per l’ordinario e a volte neanche questo. Ancora ricordiamo il lungo periodo di sottofinanziamento del fondo sanitario regionale e ancor di più lo ricordano quelli che hanno dovuto rinunciare ai diritti per l’assistenza».
Se ne conoscono le ragioni?
«Sì. La quota capitaria in Campania era ridotta in ragione della maggiore quota di cittadini più giovani rispetto alle regioni del Nord, con maggior numero di anziani e quindi, si diceva, di spesa sanitaria. In realtà il nuovo sistema di riparto del fabbisogno sanitario nazionale (FSN), introdotto dal 2023 con l’Intesa in Conferenza Stato-Regioni, insieme al decreto del Ministro della Salute del 30 dicembre 2022, ha disposto che, al criterio capitario, parzialmente pesato per tenere conto dell’influenza dell’età sui consumi sanitari, venissero affiancati altri parametri, ovvero la mortalità sotto i 75 anni e alcuni indicatori delle condizioni socioeconomiche. Infatti, particolari situazioni territoriali (povertà relativa, bassa istruzione e disoccupazione) sono stati correttamente interpretati come rappresentativi delle ridotte condizioni socio-economiche (deprivazione), mai valutata al Sud in particolare in Campania, così come la maggiore mortalità al di sotto dei 75 anni diventa un indicatore di mortalità prematura».