Lavoro straordinario non retribuito, minacce di licenziamento, buste paga false e ferie negate. Tre anni e 6 mesi di reclusione per Michele Mastromartino, amministratore unico della società “Ami” s.p.a. e gestore effettivo di tutte le società riconducibili al gruppo denominabile “Mastromartino” (American Cash s.r.; Cosm Fiduciaria s.rl. Emme due). Questa, almeno, la richiesta avanzata ieri dal pubblico ministero Daniela Pironti davanti al giudice Trivelli all’esito della sua requisitoria nell’ambito della quale ha confermato il quadro accusatorio formulato a carico dell’imputato, assistito dall’avvocato Silverio Sica, finto in un’aula di tribunale per le ipotesi di reato di estorsione e maltrattamenti (per quest’ultima accusa il Pm ha però chiesto il non doversi procedere per avvenuta prescrizione). Assoluzione, perché il fatto non costituisce reato a carico del consulente del lavoro Sabatino Giordano, assistito dall’avvocato Paolo Carbone. L’udienza è stata poi rinviata al prossimo 11 dicembre quando ci sarà la discussione del legale di parte civile, l’avvocato Marco Martello che rappresenta i lavoratori presunte vittime del loro datore di lavoro. Nel corso della sua lunga e complessa discussione il pubblico ministero ha ripercorso le tappe salienti del processo “figlio” di una complessa inchiesta, affidata alla guardia di finanza e nata da una serie di esposti anonimi che segnalavano sospette irregolarità all’interno del gruppo Mastromartino. Attraverso l’esame di tutti i testimoni, il viceprocuratore onorario ha “ridisegnato” il clima di terrore in cui i dipendenti erano costretti a lavorare. E’ in particolare l’esame del maresciallo della finanza Belcore quello più dettagliato: il pm ha riportato in aula i punti salienti della sua deposizione. «Dalle indagini – ha affermato la dottoressa Pironti nella sua requisitoria – emerge una situazione in cui i lavoratori lamentavano di svolgere ore di straordinario non dovute: ne venivano pagate 10 ma in realtà se ne facevano 40-50»; un dato, questo, a parere del rappresentante della pubblica accusa confermato in dibattimento dall’esame di tutti i lavoratori. Uno dei punti centrali della discussione ha riguardato «le ferie non godute, ma segnate in busta paga», oppure le malattie non concesse, ma date come “permesso”: «il lavoratore, cioè, portava un certificato medico di malattia, il certificato veniva strappato e quei giorni venivano considerati ferie». Una serie di sospetti sono emersi «sugli ispettori del lavoro» poiché dal dibattimento sarebbe trapelato «che l’azienda sapeva in anticipo che l’ispezione arrivava». A parere della Procura non si può quindi escludere il fatto che in ditta tutti «venivano avvisati prima dell’ispezione e molti lavoratori venivano imbeccati su cosa dire». Diversa, a parere del Pm, la posizione del Giordano il quale «sapeva che i lavoratori facevano orari terribili e senza dubbio si rendeva conto della loro situazione di soggezione psicologica e ha preferito far finta di niente ma l’unico tribunale che potrà giudicarlo sarà la sua coscienza». Al Giordano infatti non può essere addebitato «il dolo delle minacce di licenziamento finalizzate all’accettazione dei pagamenti ridotti rispetto alla busta paga. Il dolo del “sapeva e non ha fatto e non ha impedito, il fatto di sapere e di non impedire” – ha concluso il Pm – è un dolo che si attribuisce a chi ha una posizione di garanzia, ma il consulente del lavoro non ha una posizione di garanzia, ma certamente regole deontologiche da rispettare». I fatti, oggetto del procedimento giudiziario, si riferiscono agli anni tra il 1995 ed il 2004 quando i lavoratori sarebbero stati costretti, come si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, «a prestare lavoro straordinario non retribuito mediante minacce, anche implicite e larvate – di recesso dal rapporto di lavoro e di assegnazione a mansioni lavorative più usuranti di quelle svolte». I dipendenti sarebbero quindi stati sottoposti per 8 lunghissimi anni ad intensi ritmi di lavoro senza poter neppure godere di tutti i 26 giorni di ferie annuali previsti dal contratto collettivo nazionale. Le indagini, affidate alla guardia di finanza, hanno ricostruito, tassello dopo tassello, il lungo calvario dei dipendenti che, almeno secondo il teorema accusatorio, avrebbero prestato la propria manodopera senza vedere garantiti i più elementari diritti sanciti dal contratto nazionale di lavoro e in un clima di terrore psicologico in base al quale il lavoratore non poteva ribellarsi a quel “sistema” imposto dal regime, pena il licenziamento.
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