Questa sera, nell’Anfiteatro della Fondazione Alario, riflettori accesi sul Platone del Symposion con un’introduzione di Franco Ferrari che ne ha di recente tradotto il testo
Di OLGA CHIEFFI
“Non è possibile che crei poesia chi non è posseduto da un Dio e fuori di senno”. Eros, l’amore per il sapere, è un demone che porta all’insoddisfazione e all’irrequietezza, ma è anche la sola via d’accesso alla bellezza e al bene, ideali che fanno dell’Uomo un essere virtuoso. Stasera, alle ore 21,15 l’Anfiteatro della Fondazione Alario ospiterà la teatralizzazione del Simposio di Platone, per la regia e l’interpretazione di Christian Poggioni, impreziosita dalle musiche della violoncellista Irina Solinas, che seguiranno lo sviluppo armonico dei “modi” greci, assegnati ad ognuno dei diversi personaggi. La serata verrà introdotta dallo specialista Franco Ferrari, ordinario di Filosofia antica presso l’Università di Salerno e Filosofia tardo-antica all’ Università di Pavia, che ha recentemente pubblicato proprio una traduzione del celebre dialogo. Platone non reputa che la fruizione del bello abbia luogo mediante l’ “arte”, poiché ritiene che i prodotti di essa siano “imitazioni di imitazioni”, molto distanti dal vero e, dunque, lungi dallo scoprire il bello, che consiste nell’armonia, nell’ordine, nella giusta misura. Infatti, egli associa il concetto di bellezza, che è principio e origine di ogni realtà, ma al contempo non si identifica con nessuna delle cose belle che partecipano di essa, a quello di Eros, e in particolare all’arte di amare in modo filosofico. Eros, come si evince dalle parole di Socrate, è una perpetua ricerca dell’acquisizione del bello mancante, a gradi sempre più elevati, con alla base l’amore di Venere Pandemia, e in vetta la contemplazione dell’Idea del Bene, il bello assoluto, di Venere Urania. Un carattere innovativo dell’Eros platonico, emerge dalle parole pronunciate da Socrate: Eros non è, infatti, un dio, poiché è animato dal desiderio, dall’aspirazione incessante a possedere qualcosa di cui difetta, e gli dei nella loro perfezione non mancano di nulla; egli è, dunque, un “demone potente”, un mediatore fra il sensibile, da cui rifugge attivamente, e l’intelligibile, di cui è privo e che perciò desidera. Proprio questo aspetto, l’autosufficienza, è caratterizzante delle divinità: non per caso i mortali sono descritti da Aristofane come bisognosi di colmare un vuoto, di congiungersi a un altro ente per sentirsi “completi”. Secondo Platone “amare” vuol dire “creare nella bellezza”; Eros dunque, anela a creare e far nascere nuova bellezza. Questo desiderio costituisce una forma di salvezza dalla morte, che è proprio la più ponderosa mancanza alla quale l’uomo incorre, poiché è la mancanza di ogni tipo di ogni stabilità, l’assenza dell’essere stesso; la generazione è una vittoria del mortale sulla morte, poiché sotto certi aspetti garantisce la permanenza dell’essere. Il concetto di ricerca dell’immortalità viene espresso anche al fine di lodare lo studio, l’unico mezzo attraverso il quale è possibile cogliere le molteplici realtà che si avvicendano incessantemente, e che ci sfuggono in ogni attimo. La parte conclusiva dell’opera è il famoso elogio a Socrate, pronunciato da Alcibiade, che in anni passati ha potuto ammirare la fermezza dell’animo del maestro, non solo in battaglia, nel resistere alla fame e al freddo, ma anche e soprattutto nell’essere capace di non cedere alle proprie passioni, e la sua penetrante parola, pari all’aulos di Marsia, capace di obnubilare la mente. Alla fine del banchetto, comunque, tutti i convitati dormono; sono svegli solo Socrate, il simbolo della Filosofia, Aristofane, e Agatone, che rappresentano rispettivamente la Commedia e la Tragedia. Mentre Socrate non ha perduto affatto lucidità, gli altri due sono pronti ad assopirsi, dimostrando che solo la Filosofia, conoscenza integrale e non ascritta a un determinato campo, è in grado di fornire la vera conoscenza.