Convince l’attrice protagonista di “14 Wo(man)” che ha fatto registrare nel week-end il tutto esaurito al Piccolo teatro del Giullare
Di ARISTIDE FIORE
La luce oltre il buio. Uno spiraglio in fondo a un abisso di disperazione. Potrebbe essere questa, in sintesi, l’immagine che accompagna lo spettatore dopo aver assistito allo spettacolo con il quale Carmen Di Marzo, dopo il successo di “Rosy D’Altavilla. L’amore oltre il tempo”, si è riproposta al pubblico salernitano con “14 Wo(man)”, un lavoro ispirato da una storia vera, scritto e diretto da Paolo Vanacore e commentato efficacemente dalle musiche originali di Alessandro Panatteri, che ha riscosso ancora una volta il consenso di una platea ammirata e entusiasta, nelle due repliche rappresentate al Piccolo Teatro del Giullare. Intenzionata a portare sulle scene il tema della violenza di genere, evitando tuttavia di ripercorrere un terreno già abbondantemente sfruttato, Di Marzo ha individuato l’occasione di un approccio diverso imbattendosi nel caso di Joanna Dennehy, omicida seriale condannata all’ergastolo, definita “la detenuta più pericolosa del Regno Unito”. Lo spiccato carattere dominante della donna, conservato anche in carcere, si è espresso, soprattutto in ambito sessuale, mediante modalità tipicamente maschili, prediligendo cioè la completa sottomissione dei partner e il ricorso a atti violenti, poi sfociati nell’omicidio, e arrivando perfino a sviluppare una sorta di dipendenza dall’impulso omicida, ormai divenuto fonte di gratificazione. L’assenza di ravvedimento e la persistenza della durezza di carattere non sono bastate tuttavia a celare un barlume di umanità, rivelato dal pianto al momento della pronuncia del verdetto. Avvalendosi del sodalizio ormai collaudato con Vanacore e Panatteri e della consulenza di una criminologa e di una psicoterapeuta, dopo un’attenta documentazione e un lungo lavoro sul personaggio, Di Marzo porta sulle scene Giovanna Denne, una donna ossessionata da un numero che ricorre nella sua storia scandendone gli episodi chiave. Unico scostamento dal portamento consueto dei pluriomicidi, riguardo ai quali esiste un ampio repertorio audiovisivo, è la sostituzione, per esigenze teatrali, dell’apparente impassibilità che sembra accomunarli con un atteggiamento rispondente, di volta in volta, al prevalere di uno degli aspetti di una personalità dissociata: spavalderia davanti alle telecamere e remissione davanti allo psichiatra, unico ponte verso una condizione più accettabile, se non verso la libertà. Con questo personaggio si rompe lo spartiacque tra i generi ed è come se l’impulso a sopraffare il più debole venisse estrapolato dal contesto della tipologia comportamentale maschile per essere esaminato autonomamente. In definitiva, come si evince dalla vicenda del personaggio reale e dalle confessioni finali del suo corrispettivo teatrale, l’inversione dei ruoli è completa, perché sembra sia stata l’incapacità di compiere un vero e proprio femminicidio, dovuta a qualche blocco psicologico, a deviare tale impulso verso soggetti maschili nei quali riteneva di individuare una componente caratteriale “femminile”. Incapacità che, nella vita reale, la Dennehy sembra aver superato solo in carcere, momentaneamente, nel tentativo di uccidere un’altra serial killer per accrescere la sua fama. Evidentemente potrebbe trattarsi di un’eccezione che conferma la regola, visti i trascorsi da “carnefice” della sua potenziale vittima. Giovanna racconta la propria storia davanti a una telecamera, in un monologo articolato in diverse fasi temporali, intervallato da flashback. Ne risulta il completo quadro evolutivo di una personalità narcisistica che determina, forse per mancanza di stimoli sani, la discesa di una china sempre più ripida. Riuscire temporaneamente a incanalare le sue pulsioni violente e prevaricatrici accettando di occuparsi del recupero crediti per conto di un’agenzia fitti immobiliari e avviando un ménage col titolare, fin troppo passivo e accondiscendente, si rivela ben presto inutile a raggiungere un equilibrio. L’incontro con una bambina, figlia di uno dei debitori da sollecitare, sembra aprire una crepa nella sua corazza, lasciando irrompere la nostalgia dell’infanzia, della purezza, di aspettative radiose ormai vanificate. Troppo tardi: quella fugace apparizione, nell’impossibilità di tradursi in una presenza stabile nella sfera affettiva della protagonista, finisce col darle l’ultima spinta verso la discesa definitiva negli inferi. Eppure sembra che, da quel momento, emerga un’altra personalità, in conflitto permanente con quella predominante, che giunge perfino a trovare spazio per il rimorso, sia pure a fasi alterne. Ed è proprio questa lotta fra due anime, resa in modo convincente, il motivo dominante dello spettacolo. Giovanna, ormai ergastolana, conserva ancora una certa sicurezza, che sconfina quasi nel bullismo, almeno mentre racconta la sua vita, ripresa da una troupe televisiva e quindi nel potenziale confronto con un ampio uditorio, lontana dalle notti insonni passate in cella, a tu per tu col dolore. Ancora in preda al suo delirio narcisistico, consapevole del seguito conquistato, prima e finanche dopo l’arresto, attraverso i social, sembra assaporare ancora, nel richiamarlo alla memoria, il piacere di dominare e infliggere violenza, almeno finché la rievocazione dell’incontro con la bambina non ne provoca il cedimento. A quel punto, anche i colloqui con lo psichiatra assumono una piega diversa: dalla proposta insistente di collaborare con lei alla stesura di un’autobiografia destinata a un enorme successo in virtù della popolarità del personaggio, dimostrata da numerose lettere di ammiratori e pagine social dedicate a lei, si passa alla disperata richiesta di una mano tesa, di un abbraccio, peraltro destinata a restare disattesa per motivi di sicurezza. Ed è così che rabbia e rimorso, riso e pianto, si alternano sempre più rapidamente, fino a rasentare la follia e indurla a implorare inutilmente un suicidio assistito. I delitti restano quasi in secondo piano, senza indulgere in particolari macabri. Sono riproposizioni di attimi, al culmine di accessi d’odio incontrollabili: non è una storia pulp. Al teatro si chiede altro. Si chiede di scavare più a fondo nei personaggi, indagare le forze che li muovono, anche al di là della loro consapevolezza, facendone risaltare qualche aspetto di particolare interesse, che possa ampliare la visione dello spettatore, stimolarne la riflessione. Nel rispondere a tali aspettative, non può che giovarsi della presenza di interpreti sensibili e forniti di doti non comuni, come nel caso in questione.