di Nicola Russomando
L’intervista concessa dal Procuratore Capo di Salerno Borrelli a Peppe Rinaldi, pubblicata su queste colonne di “Cronache” domenica 19 maggio, sorprende sotto vari aspetti. In primo luogo, appare evidente una lucida analisi circa i modi di esercizio dell’azione penale nel distretto di Salerno per come sono stati condotti fino ad un recente passato. Un parlar franco, “sine fuco ac fallaciis”, come avrebbe detto il principe degli avvocati romani, che non esita a mettere in discussione il corto circuito tra procura e tribunale, tra fase requirente e fase dibattimentale al centro di tanti naufragi processuali. Consequenziale risulta l’affermazione per cui “i processi si fanno se uno vuole farli, ma il problema principale è l’organizzazione del dibattimento, che è stata quasi sempre caotica”. Indubbiamente, l’aver sollecitato nel rispetto dei ruoli, come si legge nell’intervista, il tribunale a procedere a tre udienze all’anno per singolo procedimento in luogo di una sola, accelera i tempi del processo, scongiurando proscioglimenti per intervenuta prescrizione che relegano l’azione penale nel limbo del non definito. Innanzi al dato del 75% tra assoluzioni e proscioglimenti in dibattimento, il Procuratore rivendica l’impulso ad indagini più complete, tali da evitare l’ingolfamento in sede dibattimentale nella prevedibile ipotesi di assoluzioni e/o archiviazioni, obiettivo perseguito con la riduzione delle richieste di rinvio a giudizio da 4000 a 1500. Dati sicuramente positivi e da leggersi nell’ottica di quel codice di rito, il “Pisapia”, introdotto in Italia pur tra tante perplessità, che proprio alla deflazione del dibattimento punta nell’affermazione delle garanzie poste a tutela dell’indagato e quasi mai evidenziate nel corso dell’indagine. Se è sacrosanto, come sostiene Borrelli, che, al di là del clamore mediatico cui sono proni molti uffici inquirenti in Italia, “un ufficio di Procura deve produrre un risultato finale: che è un provvedimento cautelare, poi un rinvio a giudizio, poi una condanna o almeno una sentenza”, indica una scansione ben modulata, che può essere solo a valle di un’attività investigativa articolata e concludente. In questa logica è da leggersi anche quanto dichiarato in merito al reato di abuso di ufficio, oggetto di varie proposte di legge, sino all’ipotesi governativa di abrogazione tout-court. La denuncia di Borrelli appare in linea con quanto affermato dalla dottrina circa l’assenza di profili di tassatività nella norma. L’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. che impone al pubblico ufficiale l’astensione nel procedimento “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”, pur con la novella “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, se circoscrive l’ipotesi ad una sua modalità fattuale, al tempo stesso si connota di vaghezza interpretativa innanzi alle più svariate condotte illecite messe in atto da pubblici amministratori nel perseguire interessi obliqui. Di fronte all’ipotizzata abrogazione, si può condividere con il Procuratore l’allarme circa la possibilità che “la condotta abusiva del pubblico amministratore venga considerata lecita”. Un’evoluzione di questo genere – per tanti aspetti già presente nel costume che, di fatto, anticipa sempre la legge- conferirebbe alla gestione della cosa pubblica la persuasione di un terreno “legibus solutus”, su cui coltivare ogni tipo d’interesse, semmai nella prospettiva di mere sanzioni amministrative. Di rimando, come pure è iscritto negli annali giudiziari salernitani, il pur contestato reato di abuso di ufficio talvolta si è prestato a velare reati di maggiore allarme sociale, come quello di lottizzazione abusiva, caratterizzato da quella particolarissima sanzione, al centro di tanti ricorsi CEDU, della confisca pur in assenza di penale responsabilità da sentenza di condanna. Come ha evidenziato il Procuratore, indagini poco mirate alla specificità del reato, conducono ad imputazioni dimezzate, facili da smontare in dibattimento. Salvo che il tribunale sua sponte, nella sua autonomia, riqualifichi il reato “in peius”, con una giusta qualificazione di confisca per lottizzazione abusiva, confermata in Appello e in Cassazione pur innanzi al proscioglimento degli imputati per intervenuta prescrizione. E quando l’iter giudiziario sembra concluso “oltre ogni ragionevole dubbio”, in sede di incidente di esecuzione la confisca viene quasi integralmente revocata dalla Corte territoriale con lo stigma della “buona fede” impresso a terzi acquirenti pur non presenti nel dibattimento. Di fronte ad iter giudiziari così complessi e contraddittori, tali da minare anche l’impianto stesso della legge, appare evidente, come denunciato senza mezzi termini da Borrelli, che indagini più mirate e più complete conducono in tempi più celeri ad imputazioni più specifiche e, semmai, a dichiarazioni di penale responsabilità a tutela di quell’interesse generale che è anche aspettativa dei singoli a vedersi garantiti nei propri diritti. Ma queste oggi, alla luce delle dichiarazioni del procuratore Borrelli, appaiono solo come distonie del sistema consegnate definitivamente alle cronache giudiziarie salernitane di un recente passato.