di Gemma Criscuoli
“Vivere nei ritagli della vita degli altri” è davvero frustrante, ma nulla pesa quanto capire che non si sfugge mai alle proprie responsabilità. Riflessione sugli scherzi del destino (o comunque si voglia chiamare l’anagramma della vita), “Binario morto” di Lello Guida resterà in cartellone presso il Piccolo Teatro Porta Catena fino al 17 ottobre. Franco Alfano, che cura la scenografia con Aldo Arrigo, dirige con Elena Scardino lo spettacolo su musiche originali di Gabriele Guida. La locandina è a cura di Bruno Brindisi. Desideri repressi, e proprio per questo inaggirabili, accomunano i quattro protagonisti, costretti ad attendere l’alba in un treno che si trova sul binario a cui rimanda il titolo. Damiano, tratteggiato da Ciro Girardi con ironia, ma anche con dolente dignità, è un professore omosessuale che non sopporta l’ipocrita perbenismo del preside né la difficoltà di vivere un amore. Cosimo (nel cui ruolo Giacomo D’agostino è estremamente attento alla naturalezza e alla verosimiglianza), un ipocondriaco sempre pronto a rintracciare in rete tutte le informazioni su ogni genere di malanno, è legato al ricordo di una sconosciuta che lo ha stregato. Salvatore, a cui Antonio Grimaldi si consacra interamente, forte della sua costante attenzione a quel che vibra nella parte più profonda del sé, medita il suicidio dopo la morte della moglie. La donna “fuori di chiave” con cui le figure in scena devono fare i conti (una magnetica e appassionata Gabriella Landi) crede di essere la Madonna e di avere una missione vitale: soccorrere i peccatori, portandosi dietro bottiglie che contengono un’acqua miracolosa. Il merito del testo di Guida consiste nella complessità dei personaggi. Damiano, nel suo eccedere la norma, porta alla luce la violenza di un contesto sociale (il ricordo dell’uomo che lo picchia per la sua diversità), ma al tempo stesso si adegua al cupo egoismo che lo circonda: confessa infatti di non aver soccorso l’auto che ha mandato, tre mesi prima, fuori strada. Cosimo non sa venire a patti con le sue debolezze, che però gli danno occasione di atteggiarsi a giudice. L’ossessione di Salvatore capovolge ogni tentazione di romanticismo in una furia distruttiva che lo spinge a ferire a morte Damiano. La stessa Vergine, madre degli istinti prima che delle anime, si compiace del potere di colpire che il suo ruolo le da’. Essere ostaggio delle proprie pulsioni condanna a essere soli, ma non distanti: la donna morta per colpa del docente è la moglie dell’aspirante suicida e il sogno irrealizzato di Cosimo. Il redde rationem, simboleggiato dall’immobilita’ del treno, rivela la sacralità impura della vita, dove i frammenti delle esistenze si ricompongono in un mosaico che suscita empatia nello spettatore: da qui la scelta di un’interpretazione quasi sempre diretta verso il pubblico, che a sua volta si trova su quel binario più spesso di quanto pensi. Non è un caso che l’acqua della morte e quella della resurrezione, offerte dalla donna, siano indistinguibili: vita e nulla sono davvero la stessa cosa, quando non esiste altra legge che il desiderio. Dissoluzione e rinascita si insinuano con la stessa lentezza (l’ingresso di Salvatore e l’uscita della donna), per poi confondersi inesorabilmente. Il finale è dunque liberatorio non meno che tragico. Non è tanto l’espiazione di una colpa quella che prende a mano a mano corpo, ma un monito (laico e spirituale, terreno e trascendente) a portare, cristologicamente, il peso della fragilità.