Bellandi, Fedullo e il Gregge - Le Cronache
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Bellandi, Fedullo e il Gregge

Bellandi, Fedullo e il Gregge

di Salvatore Memoli
Sono profondamente rispettoso dell’Arcivescovo Bellandi, della sua cultura teologica, della sua guida pastorale e della sua umanità. Devo riconoscerglielo pubblicamente. Quando tempo fa lamentai la lontananza della Chiesa Salernitana dalle vicende di un amico sacerdote, non passò tempo e Bellandi bussò alla sua porta con una semplicità disarmante e si mise a sedere accanto a lui, come vecchi amici, ascoltando e incoraggiando al bene. Ne fui straordinariamente sorpreso e contento. Si concretizzava per me quell’immagine manzoniana del Pastore che, senza pensarci su, andò a far visita all’Innominato e con la sua fede lo conquistò al bene. In fondo la fede vissuta dovrebbe essere sempre così, genuina, autentica, senza complicazioni di testa e mettendoci la faccia.
Da allora, modificando le mie riserve e chiedendo scusa per i miei limiti, ho sempre seguito ed apprezzato gli atti pastorali di questo moderno e giovane Pastore che si è inserito nella Chiesa luminosa di Salerno, restituendole credibilità e slancio apostolico.
La recente decisione di Bellandi di emettere un decreto di Commissariamento del Gregge, associazione laicale, autorizzata a tempo dal suo predecessore, mi lascia pensare che ci sono aspetti dubbi dell’intera vicenda e, tuttavia, non la penso come molti che vedono solo un atto sanzionatorio dell’Associazione, nata da un coacervo di spiritualità elevata, mistica ed ecclesiale. Certo la decisione dell’Arcivescovo lascia pensare, soprattutto per l’elevata maturità ecclesiale e giuridica dei tre commissari scelti, tutti ai vertici di tribunali diocesani con evidenti cifre.
Partendo da una considerazione positiva dell’azione del Vescovo di Salerno e, soprattutto, dalla sua terzietà rispetto all’intera vicenda, cioè l’assenza di motivi personali di doglianza con chicchessia, devo ritenere che il discernimento che sarà effettuato consentirà di chiarire molti aspetti di un’associazione proiettata alla vita laicale e consacrata non in sostituzione degli obblighi che ogni membro ha verso la sua chiesa particolare, bensì a completamento e perfezionamento di vita, caratterizzata da carismi particolari che esaltano il cammino di fede.
Nella storia della chiesa tutte le nuove forme aggregative hanno avuto bisogno di sottoporsi a verifica e di provare la fedeltà alla Chiesa e l’obbedienza ai Pastori. Non per un esercizio di dimostrazione di pratica di vita, più realisticamente per un armonico inserimento nel tessuto comunitario che ne accetta l’identità specifica.
Il Gregge nasce da valori spirituali importanti e dalla volontà di sacerdoti meritevoli di stima, di buona vita e desiderosi di camminare insieme senza tralasciare gli incarichi loro affidati dalla Chiesa. Il fine era profondamente spirituale. Tra questi sacerdoti c’era un mio fraterno amico, amico di studi universitari e di condivisione di molti momenti di spiritualità. C’era tra noi un forte legame di amicizia per cui entrambi conoscevamo le nostre indoli e le nostre identità. Di don Franco Fedullo sono stato sempre un amico, in tante tappe della sua vita ed egli lo è stato con me. In tutto in perfetta sintonia, eccetto per il Gregge. Sapevo quanto tempo già dedicava agli impegni parrocchiali e curiali, non ritenevo che assumere altri impegni sarebbe stato facile. Per un sacerdote che terminava a notte fonda il suo apostolato non comune di prete della strada, tra barboni da assistere e famiglie povere da seguire, giovani in preda a smarrimenti e donne incinte con l’unico obiettivo di abortire, c’era don Franco che si applicava senza risparmiarsi e senza rinunciare a nessun tentativo per salvare le anime e le vite umane. Con altri amici l’ho seguito anche di notte nelle retrovie di vite umane scartate, irrilevanti per molti, frastornate da povertà spirituali e materiali, ma non per lui che diventavano la sua “ossessione” pastorale… non mollava finché non inquadrava bene i loro
bisogni, le loro povertà e le loro prospettive di una vita migliore che seguiva a nome di una chiesa solidale e presente. Tutto questo lo faceva trascurando se stesso, senza omettere mai i suoi doveri sacerdotali. La sua parrocchia, ereditata da un grande parroco don Enzo Quaglia, era già di suo una realtà di avanguardia pastorale, con i suoi impegni e le sue scelte, soprattutto la guida spirituale di tanti giovani, era diventata una realtà sociale speciale, una boa nel mare di tanti bisogni umani che richiedono presenza, ascolto, concretezza.
Don Franco era già tutto questo quando decise di dedicarsi al Gregge, al quale ha dato amore, sapientia cordis e preghiera. Ma i suoi progetti non erano quelli della chiesa locale. A torto o a ragione. Per me il Pastore ha sempre ragione perché se le sue ragioni sono torti, assumono rilevanza nell’economia della sua salvezza individuale e poi comunitaria. Obbedire al proprio vescovo era e resta un atto di prova di superamento di un’individualità che potrebbe sviare dal piano della salvezza personale. Se poi il vescovo sbaglia, risponde a Dio del suo mandato svolto male. Don Franco al quale parlai con insistenza, sebbene mi seguiva con fraterno affetto, mi rispose ringraziandomi: non puoi capire, fratello mio!
Sapevo di non capire ma sapevo che i grandi santi talvolta avevano perso punti per un atto di genuina superbia.
Ho sempre saputo che il Gregge fosse una grande via al bene ma conciliare obiettivi personali e progetti comunitari della Chiesa locale non sarebbe stato facile. Ho assistito con dolore ad un esercizio muscolare tra Pastore locale e responsabili del Gregge che hanno fatto male a tutti. Avevo la terzietà necessaria per dire che il Vescovo aveva i suoi motivi per esprimere riserve sull’opera, vedendo suoi sacerdoti rispondere più alle sollecitudini dell’associazione che a quelle del suo ministero.
Il Vescovo Pierro ne ha pagato immeritatamente le conseguenze più dolorose, a volte vincendo a volte incassando bocconi amari. Don Franco non volle mai cedere e forse come lui autorevoli uomini di chiesa del vaticano ne hanno valutato gli aspetti positivamente.
La decisione di Bellandi arriva su un campo minato di vita ecclesiale, dove i toni bassi ed una normalizzazione degli impegni e dei doveri, forse, non ha fugato dubbi ovvero ha aggiunto altra materia al contendere. La soluzione indicata dall’Arcivescovo Bellandi arriva propizia per dividere le acque e definire un nuovo corso dell’associazione laicale tanto cara a don Franco oppure mette la parola fine ad un progetto importante in cui l’altezza degli obiettivi, anche mistici, si scontrano con le visioni umane. Quelle stesse che prive di ancoraggio sicuro alle linee guida della chiesa, lasciano entrare spifferi d’imperfezioni che tanto rallegrano il nemico di Dio.