Il canto eternato in uno spettacolo firmato da Sergio Mari e Fabio Marone. Successo di critica e pubblico per l’omaggio ad uno dei popoli più teatrali e musicali di Salerno Classica
di Gemma Criscuoli
La fatica, il desiderio, il sogno, l’ironia. Napoli è tutto ciò che l’animo può offrire, madre di ogni immaginario in continuo ascolto delle più svariate suggestioni. Che passato e presente non cessino di mescolarsi con tenacia impudente è vero qui più che altrove ed è per questo che, nell’ambito della seconda edizione di Salerno Classica, in “Bastimento Napoli”, scritto da Sergio Mari e Fabio Marone con gli arrangiamenti di Giovanni Liguori, la drammatizzazione, il canto e il ballo si sono uniti come voci diverse dello stesso linguaggio. Nel quadriportico del Duomo, l’Ensemble Lirico Italiano, diretto con lucido rigore dal Maestro Francesco D’Arcangelo, ha interpretato, con passione devota, melodie amatissime, come “O sordato nnammurato” e “Torna a Surriento”, ma il viaggio è iniziato da molto lontano, dal canto delle lavandaie del Vomero risalente alla fine del 1200, “Tu m’aje prommiso quattro moccatora”, in cui il soprano Annalisa D’Agosto ha dato prova della sua voce limpida e suadente. Non è un caso che questo brano abbia iniziato e concluso lo spettacolo attraverso i gesti antichi della danzatrice Alessandra Ranucci, china su una tinozza a lavare panni proprio come un tempo : il mondo napoletano, infatti, sa che quel che è stato non muore mai del tutto, ripercorre il qui e ora. Incarnando i mille volti della città, il generoso Mari, prodottosi a sua volta nella danza, su cui sono campeggiati anche burattini, più che mai vicini allo spirito popolare, è stato Masaniello, il cui invito a prendersi la piazza è coinciso con l’ingresso degli orchestrali sul palco, dato che la musica è libertà; il lungimirante impresario Domenico Barbaja, pronto a murare nel suo studio il vivacissimo Rossini (la sua Danza ha ammaliato il pubblico), pur di indurlo a rispettare gli impegni presi; Donizetti innamorato dei vicoli partenopei in cui cercare la poesia; il fatuo Gagà e, naturalmente, il Pulcinella assetato di vita anche nell’incubo della guerra. Ne “O cunto e Masaniello”, “Cicirinella” e in “Lievat’ a cammmesella” è stato creato un accattivante equilibrio tra il soprano e Fernando Galano, voce e chitarra. Se quest’ultimo ha dominato la scena in “Je te voglio bene assaie”, “Scetate” e in “Era de maggio”, la D’Agosto ha dato corpo a tutta l’energia di “Me voglio fa na casa”, “Lily Kangy”, “’O paese ro’ sole” e “Je te vurria vasà”. Non poteva mancare l’omaggio a Pino Daniele, divenuto, nella performance di Mari, una benevola presenza che riduce a sole parole la vita e la morte, nell’ininterrotto rinascere di una città meticcia.