Trionfa al teatro San Carlo la più fraintesa delle opere mozartiane con la regia di Chiara Muti, diretta da Dan Ettinger dalla panchetta del fortepiano. Nel cast spicca su tutti il tenore Maxime Mironov. In orchestra riflettori sugli strumentini
di Olga Chieffi
Il campo della pallacorda per storicizzare la scena e l’homo ludens di huizingania memoria, per affermare, ancora una volta, che non c’è altra sorgente che vivifichi tutte le diverse forme di ciò che noi chiamiamo cultura se non il gioco, poiché il gioco è la radice di essa. Con un “doppio” settecentesco a scambi “incrociati” tra Ferrando e Guglielmo e i loro immaginari alter ego, con arbitro Don Alfonso, si è aperto il Così fan tutte del teatro San Carlo, firmato da Chiara Muti, che ci ha condotti fino all’inizio d’aprile, in una settimana tutta mozartiana. “La scola degli amanti” inizia proprio da un rettangolo di gioco ed è noto che il termine “gioco” è un termine infinitamente sfaccettato, che incrocia la musica, il teatro, la gioia, la terra, la creazione, la conoscenza, quindi la vita. Don Alfonso organizza una burla amara, togliendo per qualche due giorni la “gioia” ai quattro amanti, ponendoli, così, dinanzi alla cruda realtà, per fargliela, quindi, ri-conquistare attraverso la “prova”, il “labirinto”, le favole, da La principessa sul pisello a Cappuccetto Rosso, le “tentazioni”, l’iniziazione massonica e l’esordio nella “nuova” vita con maggiore consapevolezza, gioia e più grande forza d’amore. Mozart non si nega a nessuno delle sue geniali trovate, traendone ritrattini di sapida esattezza: Despina portavoce della filosofia da bodoir di Don Alfonso, adotta tutto l’armamentario della conversazione classicista, travestimento incluso, e le protagoniste in amore, Fiordiligi e Dorabella, rendono ossequio, fin che possono, al modello dell’opera seria scarlattiana, tra arie di “concitazione” e di “bravura” (“Smanie implacabili” e “Come scoglio”), facendo appello persino all’erudizione mitologica, discutendo delle Eumenidi. Ma nel momento in cui il corteggiamento avviene individualmente e, dunque, con il vero scambio di persona, le incertezze e i dubbi si affollano e nelle arie del tenore, in particolare, si avvertirà lo sgomento metafisico e lirico dell’uomo, dinanzi alle problematiche dell’esistenza. La musica coglie l’irrazionalità di amore e con essa l’opposizione tra messaggio teatrale e psicologico e, per il sortilegio di un’invenzione sopra le righe, chiarisce, anzi pretende, che Dorabella e, in seguito, Fiordiligi, siano ugualmente attendibili nei patetici pezzi d’insieme del primo atto come negli episodi singoli del secondo e che, cantino da sincere innamorate sia negli sfoghi per gli amanti partiti, sia in quelli che sanciscono il loro voltafaccia. Opera misteriosa e fraintesa questa, composta dalla cinicità di Da Ponte che punta il dito sulla falsità dei rapporti, sino a denunciarli come falsità assolute e l’irresoluzione e l’aleatorietà di Mozart, il quale crede irrimediabilmente, in quella chimica che una infatuazione può creare, lasciando, quasi sempre, un retrogusto acido. L’esecuzione, da parte dei cantanti, è stata corretta e piacevole, nel giusto equilibrio, a cominciare dal soprano Mariangela Sicilia, la quale ha dato voce e corpo a Fiordiligi, latrice di una voce resistente, sonora, che ha donato ad agilità sicure e fraseggio espressivo, aggiungendovi per intero le arti seduttorie. Una Dorabella credibile è stata Serena Malfi, che possiede voce ben timbrata, ma ha lasciato qualche ombra nelle agilità e nel registro medio alto. Vincente la Despina di Damiana Mizzi, sia nelle movenze sia nel canto, a lei la palma tra le voci femminili. Alessio Arduini ha fascino sia nella voce che nel fisico e ha schizzato un Guglielmo seducente e un po’ sborione. Ferrando ha il volto e la voce del tenore russo Maxim Mironov, un vero principe, dal timbro incantevole, splendido legato e fraseggio, il migliore sul palcoscenico. Il Don Alfonso di Paolo Bordogna è risultato insinuante, sornione e carismatico, anche se la voce in qualche punto ci è giunta affievolita, in particolare nel registro grave. Nell’orchestra del massimo, diretta da Dan Ettinger, dalla panchetta del fortepiano su cui ha realizzato molto liberamente i recitativi, nota di merito per gli strumentini e, in particolare, per il primo oboe Hernan Gareffa, in grande spolvero nell’ouverture, con a fianco Andrea Marotta, una delle gemme prodotte dal conservatorio di Salerno. L’interpretazione del maestro non ha considerato un Mozart che guarda ben più avanti del suo secolo, appiattendo un po’ tutto, senza usare quel nero fumo con cui il genio di Salisburgo costruiva il ponte per collegare l’Inferno al Paradiso. Applausi per tutti, anche per il coro ben preparato da Josè Luis Basso.