Questa sera, alle ore 20, riflettori accesi all’Opera di Tirana per il capolavoro verdiano diretto da Jacopo Sipari di Pescasseroli con la ripresa della storica regia e scenografia affidata a Stefano Trespidi ed Ada Guerra. In orchestra otto studenti del Conservatorio di Musica “G.Martucci”
Di Olga Chieffi
Se l’Arena di Verona ha sentito forte il bisogno di modernizzare l’Aida trasformandola in un kolossal ipertecnologico che ha diviso critica e pubblico, l’Opera di Tirana omaggerà da stasera sino al 27 giugno, il centenario della nascita di Franco Zeffirelli, riprendendo la sua storica regia. Una ripresa della celebrata creazione, affidata a Stefano Trespidi e Ada Guerra, fortemente voluta dal sovrintendente Abigeila Voshtina, che sarà una sfida particolarmente attraente sul piano della messinscena. Il pubblico che ha già quasi decretato il sold-out parteciperà del Grand-Opéra verdiano con tutta la vocazione alla visualità e al décor grandioso che è proprio del genere, anzi abbracciando senza inibizioni un’idea tradizionale, forse per questi tempi se si vuole, nostalgica, della messinscena operistica. Sul podio delle masse orchestrali e corali (queste ultime preparate da Dritan Lumshi) dei teatri i Operas dhe Baletit di Tirana, il Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, che avrà tra i leggii delle diverse sezioni otto suoi studenti del Conservatorio “G.Martucci”, Carmine Landi e Carmine Ciccarone alle percussioni, Gaetano Apicella al clarinetto, Antonietta Lamberti all’arpa, Andrea Ronca al flauto, Davide Papa alla tromba, Pietro Avallone all’oboe e Mauro Castiello alla tuba. Ricordiamo la soluzione elegante adottata da Zeffirelli per risolvere il monumentale Trionfo del secondo atto, dove la corte ammira la sfilata componendo un elegante tableau da pittura storico-archeologica ottocentesca. In generale, il soggetto o il colore coloniale di un’opera d’arte dei due ultimi secoli non appartiene alla storia esterna, ma deve essere considerato interattivo rispetto ai valori estetici che non ne vengono necessariamente sminuiti, ma co-determinati. Sono ibridi che appartengono e vanno giudicati, in base all’appartenenza a due diversi regimi culturali, della metropoli e del paese d’oltremare. Valgono per ciò che includono e per ciò che escludono. Aida può porsi comodamente accanto alle letture di Kipling, Conrad e Camus, per andare a scoprire un Verdi che non sembra, almeno all’inizio, particolarmente coinvolto nel problema egiziano e in lui, dunque, la deformazione orientalista si esprime in totale innocenza. Per la prima volta, il compositore, sempre vessato dalle direzioni dei teatri e dai capricci dei cantanti, ottiene un controllo totale, quasi wagneriano sull’allestimento dell’opera, realizza una concezione imperialista dell’artista proprio grazie a una concezione imperialista del mondo non europeo, le cui richieste in materia erano pressoché nulle. Significativa è anche la scelta di rappresentare la gloria dell’Egitto, cui Ismail teneva in misura inversa allo scarso potere contrattuale politico, non in riferimento al presente arabo-islamico, i cui echi di maniera risuonano in molte danze e intonazioni, affidate ai ballerini, ma al passato faraonico, già legittimato dall’egittomania massonico-illuminista del Settecento (ricordiamo il tempio di Sarastro), poi dilagato con la conquista napoleonica. La storia è riscritta, quindi, in funzione dell’Impero, con relativo commento musicale. Ci sono diversi momenti della partitura un po’ opachi o poco decifrabili, come se Verdi fosse restato prigioniero di una storia e di un clima che non riusciva a condividere. Ma è un Verdi sperimentatore quello di Aida, che fa ricorso a insolite modulazioni, oscillazioni tonali, stilemi arcaicizzanti, compreso il fugato e richiami modali nei cori, che troveranno sviluppo, poi, nell’Otello, anch’esso a suo modo orientaleggiante, e nel Falstaff. Agisce probabilmente , se non l’influenza, certo la concorrenza con Wagner, compreso l’uso occasionale di leitmotive, e si arriva perfino ad anticipare atmosfere post-wagneriane e non solo per l’esotismo delle danze, che già fanno pensare alla Salomè straussiana. La funebre rigidezza che a volte spira dalla musica, un po’ effetto musealizzazione, un po’ presagio neoclassico, contribuisce alla modernità armonica del canto e della ricchissima orchestrazione, sconcertando un ascoltatore abituale di Verdi. Si aggiunga che lo schema drammatico è una particolare variazione della struttura conflittuale soggiacente allo standard psicologico-vocale operistico: come in Norma e in Carmen abbiamo una coppia (soprano-mezzosoprano) che si contende il tenore, mantenendo rapporti di parziale solidarietà, (la finale pietà di Amneris), sovradeterminata da un potere paterno del basso (qui doppio, il re etiope, Amonastro, interpretato da Armando Likaj (Piero Terranova nelle repliche)per Aida che avrà la voce del soprano Eva Golemi, ruolo condiviso con Joana Zhelezcheva, e il faraone Ramfis, Bledar Domi, per Amneris, impersonata da (Ivana Hoxha e Silvia Pasini per il secondo cast) e dal riferimento a un padre sacerdote, che in Norma è il padre vero della protagonista, qui è concorrente al Faraone, mentre in Carmen la Legge del Padre, in mancanza di un genitore naturale, è risolta nell’astrazione dell’autorità, spartita fra Zuniga (la gerarchia militare) ed Escamillo (la virilità sportiva). Lo schema messo in movimento propone, al solito la diserzione, il venir meno ai doveri di odio e autorità, che nel caso di Aida si manifestano in una più complessa ripartizione dei ruoli: Aida tradisce il suo popolo e suo padre innamorandosi di Radamès (il tenore Amadi Lagha), tradisce Radamès inducendolo a tradire involontariamente i segreti militari e invitandolo a fuggire con lei verso l’Etiopia; Amneris prima sollecita la punizione dei traditori, poi si sforza di salvarlo; Amonastro cerca di imbrogliare sia la figlia che il Faraone, mostrandosi sottomesso. A completare il cast, il Re Xhieldo Hyseni, un messaggero Andi Istrefi e Keldi Ametaj, la Sacerdotessa Dorina Selimaj e Marina Kurti. L’amore si batte inutilmente contro le ragioni della politica e della superstizione elevata a potere. L’elogio del tradimento sprofonda nel lutto, mentre l’esotismo è solo un contorno. Un radicale pessimismo conduce dalla marcia trionfale e dalle continue allusioni celesti all’oscurità della tomba e il nuovo cielo che si schiude è speranza fievole come l’ultima canzone di Desdemona. Il coro “Immenso Ftah” che copre lo straziante addio dei due amanti è il funebre suggello di quel ciclo storico che si era aperto nella baldanza aurorale degli inni egizi del Die Zauberflote.