Michelangelo Russo
I necrologi che non si vorrebbero mai scrivere sono quelli per gli amici fraterni. Tale è stato per me Costantino. Ci conoscevamo da oltre sessanta anni, dai tempi del liceo De Sanctis. Curavamo due giornali studenteschi diversi, anche rivali. Lui con Silverio Sica, io con una schiera di impertinenti e irriverenti teste calde pre-sessantotto sparse tra il liceo Tasso e il De Sanctis. Quell’esperienza ci legò nello spirito delle confraternite, che chiama fuori dal gregge degli obbedienti per natura tutti quelli incapaci di mettersi in riga, sotto qualsiasi ordine di autorità. Costantino era uno spirito libero, audace nelle sintesi analitiche di uomini ed eventi, premonitrici infallibili di eventi futuri che il suo fiuto di saggio epicureo annusava da pochi elementi. E’ stato un avvocato civilista insigne. E’ stato assistente universitario a Napoli di Istituzioni di Diritto Romano, allievo del mitico Antonio Guarino. Di fronte al quale, da studente, io tremavo. Dopo la laurea, Costantino fu chiamato da lui ad assisterlo negli esami, e si davano entrambi del tu. Per me ancora oggi è inconcepibile, come onore. Negli anni ’80, quando con Claudio Tringali tornammo da Milano per venire alla Procura di Salerno, Costantino fece naturalmente parte di quella fronda di ribelli saggi che si agitava per uno svecchiamento del paludoso mondo della Giustizia salernitana. Le sue battute caustiche, inesorabili e impietose su personaggi e avvenimenti, suonavano dell’eternità dei brocardi latini. Narrazioni in cui l’assurdo dei comportamenti di gente conosciuta, spesso dell’ambiente giudiziario, assurgeva non a una riprovazione (non era nello stile di Costantino) ma ad una elegia dell’imprevedibilità e mediocrità della condizione umana. Più che Dante, patrono spirituale di Costantino era Giovanni Boccaccio. La sua cultura immensa, quale si addiceva agli intellettuali meridionali di rango, lo portava alla citazione naturale, negli scritti come nei dialoghi, dei maestri tutti del pensiero, dai filosofi ai poeti vernacolari. In Tribunale, al suo arrivo, i colleghi avvocati arretravano di un passo per rispetto. E i giudici civilisti, dinanzi alle sue arringhe, tendevano le orecchie con apprensione, sapendo che forse dovevano imparare qualcosa che non sapevano. Gli bastavano poche parole per predire l’esito di ogni vertenza giudiziaria. La sua sintesi premonitrice colpì il grande Franco Zeffirelli, quando nel 1992 glielo presentai alla sua villa di Positano. Zeffirelli era angosciato da una questione di usucapione col suo vicino. Volle conoscere Costantino quando gli dissi che in materia di usucapione e servitù prediali lui aveva scritto i libri. Ci presentammo alla villa il 14 agosto del 1992, Costantino in piedi, sul minuscolo barchino dei traghettatori Lucibello, in completo marrone scuro, scarpe nere e borsa pensante nella destra. Tra spruzzi del maestrale e ondeggiamento del barchino, Costantino, tutt’altro che atleta per corporatura e agilità, venne issato sullo scoglio antistante la villa da un corpulento omaccione sbracato, con camiciola aperta sul pancione a globo e calzoni corti da pescatore. Bagnato, ma imperturbabile nel suo look professionale a 40 gradi all’ombra, Costantino, seguito da me, si incamminò verso la villa, con sguardo grato al salvifico omaccione. Per gratitudine cacciò allora dalla tasca mille lire porgendola al silenzioso barcaiolo, che con gesto garbato rifiutò l’offerta. Sedemmo alla grande tavola da pranzo alle 3 del pomeriggio. Io e Costantino dirimpettai di Zeffirelli e del corpulento ormeggiatore di prima, seduto addirittura alla destra del Maestro. Ci soprese lo spirito democratico e informale del regista, che metteva a capotavola il personale di servizio. Ma poi l’omaccione parlò in inglese, e Zeffirelli assentiva con deferenza. “Franco, ma questo chi è?” gli chiesi. Apprendemmo con sgomento che era l’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America Peter Secchia, in pausa ferragosto a Positano, a cui Costantino aveva dato mille lire in mano per l’ormeggio. Costernato dall’equivoco, Costantino si scusò con Zeffirelli per l’offensiva offerta delle mille lire. Ma il grande regista, con lo charme degli eletti, rispose alla tavola che per la misera somma Costantino non doveva vergognarsi, perché nessuno può sapere quanto si prende per mazzetta, un ambasciatore, per farti l’ormeggio o per lavarti la macchina. Costantino vinse la causa di Zeffirelli. Che lo aspettava ansioso e ammirato ricevendolo alla villa. A un certo punto il linguaggio di Costantino, colorato dalla voce roca con candite oscenità provocatorie lapidee come proverbi antichi, gli fecero immaginare per Costantino una parte per un film che stava preparando per il Decamerone. Era un progetto che il regista voleva fortemente, forse per una sua rivalità, anche se postuma, verso Pier Paolo Pasolini. A cui invidiava l’impianto gotico primitivo del Vangelo secondo Matteo, non superato dal suo sontuoso Gesù di Nazareth. E così il Decamerone di Zeffirelli, con Costantino Montesanto tra i protagonisti, in risposta al Decamerone di Pasolini. Peccato. Progetto quasi pronto, ma sfumato. Ma con la cultura Costantino ha viaggiato nella sua vita, senza vanterie. Di Gino Paoli fu amico, e insieme scrissero dei versi di una canzone. Ma l’impegno di Costantino, nelle pause di lavoro, era la saggistica e la storia. Autore puntiglioso e prolifico di storie della Costiera, ne omaggiava l’eternità arcana della sua leggenda attraverso la ricerca filologica di eventi e nomi dimenticati. Della sua Costiera evocava saperi di mestieri e sapori di cucina con artificio alchemico del suo racconto orale, che nelle sere d’inverno, nel suo studio, metteva in scena per i fortunati ascoltatori. Tutto era già mitico, nello studio di Costantino. Dalla ripida scalinata per accedervi, alla libreria enorme, di testi che aveva realmente letto. E d’estate riceva clienti e amici scalzo, in canottiera e mutandoni, sbuffando per il caldo; col telefono perennemente chiuso. Chi lo voleva, doveva salire i 50 ripidi scalini del suo vicolo. Era un archetipo primordiale dell’uomo mediterraneo della Costa di Amalfi, imbevuto di saggezza millenaria arrivata da levante coi soffi del grecale, e degli echi sonori delle navi omeriche. Salerno ha perduto uno dei suoi più grandi maestri, che mancherà a tutti.





