Di Alfonso Mauro
“Le nostre menti sono soffocate dalla paura, con un’artificialità tale che spesso non riusciamo neanche a riconoscere la bellezza. È questa paura, questa mancanza di visione diretta che genera i disastri del mondo; e quanto sottile è l’opportunità che offriamo di respingere la paura, per vivere semplicemente…” — così, con confidenza non scevra da tersa e giusta politicizzazione, nota a chi lo conosce, l’artista statunitense, italoamericano campano e vietrese da pluridecennale d’adozione, William Papaleo. Pittore dalla ragguardevole e feconda formazione luci-colore-atmosfera con i rinomati Henry Hensche (1899–1992) alla Cape School of Art (Provincetown, Massachussetts), e Robert Beverly Hale (1901–1985) alla Art Students League (New York), Will o Bill per gli amici vanta una quarantennale attività figurativa e didattica tra gli States e la Campania, e sarà sino a fine marzo in esposizione con una raccolta ma rimarchevole retrospettiva-ponte tra Salerno, Vietri, e New York presso la nota attività in via Botteghelle già ricettacolo di iniziative anche culturali. Un ponte, a bridge, tutto diafanie cromatiche e velature eteree evocate per aggiunta di luce pure capace di annuvolare burrasca e nubifragio e il moto vorticoso di cose e natura, ovattate istantanee la cui didascalicità, la cui poetica, fluisce nel vanire di aloni e nella ricomposizione olistica dei segni in un Tutto cromatico che vibra — in pregnante solco e omaggio alla Scuola impressionistica viva nella sua formazione e dunque precipua caratura della sua mano pure non pedissequa e anzi contemporaneissima e impastante hic et nunc. Radici nella tradizione umanistica e figurativa; dipingere la vita quotidiana e non soltanto studiare i grandi del passato, della tradizione; affrontare una dimensione nuova e di generare una reazione lirica rispetto all’ambiente. Dieci fra tele e fogli in carta d’Amalfi diversamente trattati, e con “impressioni” dei luoghi dell’artista che hanno richiamato un certo pubblico di amici, estimatori, curiosi, ed esperti per il vernissage tenuto martedì sera, 11 marzo. Abbiamo raggiunto Will — in traduzione dall’Inglese della conversazione avuta, quantunque egli sia perfettamente fluente in Italiano:
Puoi dirci qualcosa circa la poetica che anima questa mostra e l’ispirazione reificata in questi lavori?
“Indubbiamente, desidero fare riferimento a William Turner, poiché ha per molti anni avuto effetto sul mio lavoro. Negli Stati Uniti dipinsi presso la più “antica” scuola di pittura americana, la Cape School, dove la poetica di Monet fu trapiantata da William Merritt Chase (suo amico), maestro del maestro del mio maestro della pittura en plein air — e si può dire io ne continui la tradizione, in vena più contemporanea, con riflessione introspettiva. La maggior parte dei miei ultimi lavori, qui ben rappresentati in campione, si sono concentrati circa la e sulla Costa — e soprattutto quelli che la ritraggono dal mare sono reificatori e latori di un incantamento che amo. Il titolare della location che ci ospita era particolarmente interessato a qualche scena da New York da giustapporre in ideale dialogo con l’Amalfitana. Se l’impermanenza di quest’ultima è qui cifra del momento, nell’ora e nel giorno di realizzazione (si rammenti la serie delle cattedrali di Rouen di Monet — N.d.R.), l’americana è quasi “archeologica”, impastando due quasi Futuristiche vedute tra palazzi della Grande Mela che hanno ceduto l’ingegneristico passo a grattacieli del quartiere di Hell’s Kitchen”
Dunque, questa impermanenza? Un lampo, una luce?
“Qui è tutta luce — sono momenti, dicevamo, di impressionistico schiocco di dita che mi hanno catturato o cui magari riuscisse di sollecitare una corrispondenza di sensi con il vissuto. Ogni persona che ha mostrato al mondo la strada verso la bellezza è stata ribelle e senza patriottismo e senza casa; trova la sua gente e la sua permanenza ovunque, per dirla con il filosofo Robert Henry. O magari uno smarrimento; è il caso della cupa scena della tempesta, dipinta dal mio studio a Raito in concomitanza con l’elezione di Donald Trump. Un modo di vivere e di avvertirsi sentire. Qui la sensazione era di essere in balia del nubifragio”.
E circa la relazione tra “vedutismo”, pallente cromie pastello o perturbante foschi nervosismi, e la gente da trovare e far propria? Ricordo con piacere una tua recente mostra presso l’aula consiliare del Comune di Vietri popolata da genii locorum nelle fattezze di artigiani, passanti, amici, migranti
“Ho sempre lavorato con entrambi — paesaggi e gente. Le persone: magari gli ultimi, o the locals, i secondi che gli americani tendono a non vedere durante le loro villeggiature, i primi non-visti a tutti. È importante darne testimonianza, tanto quanto gli angoli nascosti non allineati al o allettati dal “tourist gaze”. Momenti e incontri che assurgessero a una originalità propria; pittura prevalentemente dal vivo, magari ritoccata in studio ma sempre vibrante di “presentezza”. L’onestà e l’autenticità non sempre collimanti con la classica perfezione; ma l’importanza di tornare a calarsi nell’emozione di fare nel presente”.
Una sorta di continuazione del Grand Tour? Accennavamo alla generazione di Turner
“Occorre però cautela! Il Grand Tour non solo aveva con sé una cifra di paternalismo molto british, ma propinava agli artisti una composizione stereotipica già fissata in mente da “riempire di colori”. Qui invece è l’Esperienza del dipingere, dell’Esserci nei luoghi e con le persone che rischiano di sparire dietro il consumismo… Una tensione bella, romantica ma senza romanticizzazioni e senza nostalgismi. Il momento atmosferico, corale, personale”
Qualche altra parola circa il lavoro con le persone?
“Anzitutto il dato tecnico operato alla Cape School: figure in controluce, o, se si preferisce, caravaggescamente conducenti artista e osservatore a vedere l’individuo in termini di colore. Ma, discostandomi dall’esercizio meramente ritrattistico, fare anche parlando a uomini e donne, magari migranti impauriti e traumatizzati, onde guadagnarmene la fiducia e il permesso a ritrarre. Dunque anche interviste da accompagnare al dipingere, a New York come a Napoli come a Vietri. Là una mia tela 200x150cm ispirata alle Sette opere di misericordia di Caravaggio, ma con scene sostituenti vietresi, salernitani, migranti…”
Politicamente sensu lato, quale il ruolo dell’artista impegnato, massime in questi tempi incerti non solo negli States?
“Fin dai tempi di Reagan fu chiaro, a chi voleva vedere, quale pessima direzione stessero imboccando le strade. Anche in questa funzione ho scelto di diventare una persona attiva in Italia, qui lavorando ma cercando al contempo di fornire vicariamente esperienza di positività e autenticità per l’America. Farsi ponte nonostante le avversità; fare rete onde mostrare ciò che va preservato”.
Tra le attività di Papaleo, va ricordata la collaborazione con operatori turistici statunitensi per una didattica pittorica e poetica del viaggio che trascenda lo stereotipo e fornisca chiavi di lettura delle delicate fragilità di un territorio e di una umanità che questa oculata, gentile lentezza può forse contribuire a preservare. Il gesto, il segno, il luogo, l’umano, il metamorfico. Spiriti affini, non sorprende Will abbia voluto ricordare, nel piacevole dialogo con i convenuti, Ugo Marano e Peter Willburger, di quest’ultimo cadente in questi giorni l’anniversario dalla prematura scomparsa