Con infamia e con lode, la sushi-fusion al Teatro Verdi di Salerno firmata da Giandomenico Vaccari. La vince su tutti lo Sharpless di Massimo Cavalletti
Di Alfonso Mauro
“Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere” — o una farfalla, parafrasando l’Ecclesiaste per lo sciame delle grandi occasioni al Verdi di Salerno: Madama Butterfly (1901 – 1903), Puccini, su eccellente libretto del duo Illica-Giacosa nel loro meglio del dir per musica post-verdiano. Sperando nell’ “olezzo di verbena” e sfarfallando tra i palchetti che l’accredito giornalistico fa grati, è avventura al melomane larvatosi da borghese per la prima al Massimo cittadino porgere tanto prossimo orecchio ai ronzii del Golfo Mistico, e a certi altri frinii e cicaleggi sottesi e attornianti, da riuscire a presagire quando non proprio desumere la scontentezza finanche dei performers medesimi per il miscuglìo del nipponico unguento in (qui disperata) effusiva, opulenta salsa giapponeseria-Belle- Époque; ma è stato, appunto, come preparare il sushi a casa mancando ingredienti o strumenti. Pur di dirla con Salieri-Casti (“prima la musica e poi le parole”), troppo sovente s’oblia che l’Opera è anche altro dalla sua musica sic et simpliciter; primo ingrediente essendo Regia e Coreografia che intendano intendere il testo, o che comunque compiano scelte non gratuite e ragionevoli nell’economia del patto scenico e delle capacità pecuniarie della produzione, e nel fingimento su coturno stiracchiato troppo il cui passo è rischio smagliare tutto. Anzitutto l’insensata scelta di una cornice narrativa (chiosata da infelice dizione microfonata) che fa del dramma di Cio Cio-San una mise en abyme: Dolore, l’ormai adulto e arruolatosi figlio della già geisha spezzatinàtasi, è di stanza in Vietnam anche ond’apprendere in Giappone della madre biologica. Ma a che pro prendersi l’esoso disturbo d’un figurante orientale quando il libretto parla chiaramente di “occhi azzurrini” e “ricciolini d’oro”? Dicasi medesmo del Dolore figurante bambino cui la talentuosa ma troppo smaniante Kristine Opolais carezza capelli lisci castani. Terribile l’apparizione guardona di Dolore adulto durante il concepimento già da “freddo ‘nguollo” per il Pinkerton anziano su (presunta) quindicenne. È vero che non può (non deve?) esserci pedissequa aderenza filologica (massime in un’opera à la cultural appropriation) tra scena e chiare indicazioni autoriali, ma dopo numerose disattenzioni e deliberati disattendimenti, quando non forzature belle e buone, la magia dell’Opera d’Arte totale s’infrange; e, se, come da ottimo Sharpless Massimo Cavalletti “Badate!… Ella ci crede”, noi iniziamo a non crederci più. Altri esempi: secondo libretto, quando Butterfly confessa al vocalmente rospo Pinkerton Gustavo Porta d’essersi convertita al Cristianesimo, i di lei parenti non odono, non sono presenti nello stesso spazio scenico — come potrebbero altrimenti sorprendersi e scandalizzarsi (“né i miei lo sanno”) quando lo Zio Bonzo irrompe rinnegandola per apostasia? Assolutamente gratuito, invece, il passeggio in fondo scena di figuranti con ombrelli (non orientali) più in avanti in opera. Horror vacui? Una distrazione dal tratteggiamento psicologico, dalla solitudine, dal minimalismo orientale. Passi pure, insomma, l’ambientazione negli anni ’50 — anzi! piuttosto felice la reminiscenza-wasteland atomica della scenografia nel momento dell’harakiri (peccato che il termine significhi letteralmente “ventre-taglio” e Opolais si sgozza) — ma, fondamentalmente, o si lavora registicamente secondo gradi di filologicità/naturalismo o si fa ricerca: tertium non datur, o quando ci vien dato, l’unguento inizia affiorare troppe mosche. Tuttavia giovi dare la palma del plauso alla scenografa Sara Galdi. Nugolo altresì di mosche, l’acustica delle voci, massime nel secondo atto, e i troppo soverchianti campanelli a tastiera appollaiati in palchetto con le percussioni. L’opera prediletta dal Cigno lucchese («la più sentita e la più suggestiva che io abbia mai concepito») riede al dramma psicologico e allo scrutare i moti intimi il cui alto livello tecnico-rappresentativo è nella plasticità compositiva e nel colore orchestrale — quasi ininterrotto fluire armonico donde, venuto purtroppo meno un disciplinamento direttivo sufficiente e con visione d’insieme, sono spesso sorti strumenti trovatisi scoperti e qualche altro ronzio. Sono, s’intende, critiche di “coro a bocca chiusa” dirette dal caveat del si parva licet; e, in fondo, il pubblico ha plaudendo apprezzato ciò che con gli avvezzamenti gourmet dei giovanissimi battezzeremo sushi-fusion. E, tutto sommato, non v’è stata indigestione. Niente baccano e niente bonzeria. Banzai.
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Un altro scienziato…
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