Una gioia e una sofferenza e il suo ricordo rivive da solo
L’esistenza di mio padre è come una parabola, che si identifica in un sentimento radicato in un luogo, non un luogo qualsiasi ma di coloro che l’hanno attraversato, arricchito di testimonianze e di storia, e lui aveva a cuore le generazioni future, sempre attento alla costruzione del presente sulle memorie del passato, con un’idea del gusto e della cultura di una coerenza che non accettava compromessi. Un sentimento del tempo, come il bellissimo titolo della raccolta di Ungaretti, poeta che insieme ad Alfonso Gatto lui amava tanto, di una bellezza che conteneva una sofferenza, come quando tu fai continuamente i conti con la vita, per portare avanti un’idea, struggendoti per anni, come ha fatto lui. Sono trascorsi quasi tre anni da quel giorno, sembrano molti, forse, per chi l’ha rinnegato, ma cosa sono in fondo? Non sono niente, ed è un atto nobile, di riconoscenza e rispetto ricordarlo, per chi ha conosciuto la sua generosità e i suoi propositi. Non era facile, di una complessità introversa sì ma per tanti che l’hanno conosciuto, Sergio Vecchio era quella frase, quel gesto con le mani, quel modo austero di stringere i denti, ed era soprattutto il pittore nel suo studio, nel suo mondo, casa Museo, Atelier di vetro in prossimità dei binari, là è la nostra casa, la sua. Non è un caso che da quando ha attraversato il varco della sua tela, diventando pura anima, respiro della sua stessa pittura, abbiamo ritrovato, sparsi o raccolti nel suo studio, fra i cassetti, i frammenti del suo vissuto, come resti della sua presenza con la quale ci stiamo ancora incontrando. Tra questi mi hanno commosso i disegni conservati di noi bambini negli album di una volta, illustrati dalle fiabe di Fedro, che lui ci assegnava come compiti d’estate, e noi studiavamo insieme a lui che cos’erano le ombre, le foglie, i boschi, i rami, un cacciatore e la Morte, insomma la sua idea di natura e la nostra appartenenza. Ho ritrovato, come mare sommerso, fotografie che ripercorrono luoghi a lui cari ripresi a distanza di mesi, anni da varie prospettive, come un reportage nella solitudine del pensiero. L’ex Casello 21 è sempre presente, sempre più in disuso, di rosso consunto come i biglietti sciupati dei treni. Ed è per questo che io non ho mai conosciuto nessuna persona più legata a filo doppio, con la stessa coerenza che l’ha contraddistinto, come se l’avessi lasciato ieri, ripeto, “ieri”, alla memoria intima di un vissuto che si è sempre identificato con un vissuto collettivo. Rivedo spesso i video con mio padre, e lo ammetto, un po’ mi fanno male. Ci fa amarezza che non si sia potuto ancora realizzare il suo ultimo sogno, il suo ultimo progetto. Il video per esempio del Museo Narrante di Hera Argiva Beni e Mali Culturali, in cui lui parla della sua idea di futuro per Paestum con una coscienza molto chiara della geografia dei luoghi, di Paestum e delle sue varie contrade, contro i Mostri del Moderno e senza beceri localismi. Mio padre, attento a quello che dice, appare immerso nel suo studio, con gatti agili e saltellanti, come nei suoi disegni, fra le sue tele, e i grumosi colori, sembra che il tempo si sia fermato lì. E risponde alle domande in atteggiamento fermo, con coerenza, ribadendo l’idea di un progetto di cultura più decentrato, col recupero del Museo di Hera Argiva nel rispetto delle infinite risorse del territorio, della sensibilità dei viaggiatori e non solo, ma di chi resta, in un continuo colloquio, come avrebbe voluto lui, fra antico e moderno, in una continua sinergia fra la Sovraintendenza e il Comune. In quel modo di parlare, in quelle pause e di fermezza composta, lo rileggo come oracolo parlante, ecco, che mi appare la sua scrittura, incisa, franta come un graffito, quel misto di corsivo e stampatello che è al tempo stesso una caratteristica per cui si distingueva e a me piaceva tanto: il contradditorio e cioè che non può esservi un’armonia, ma che dobbiamo imparare a convivere in una perenne scissione. Questa è un’altra cosa che mi ha insegnato. Al punto tale che mi piacerebbe rivederlo in sogno per chiedergli, a lui che aveva tanto intuito e percezione di un oltre, che cosa pensa di questo terribile momento buio che stiamo vivendo. Che cosa ne sarà dell’antico Buffet della stazione di Paestum, della sua nobile idea in fieri di rilancio culturale, dove poter raccogliere, custodire in un Archivio la sua eteroclita raccolta di arte, di stampe, dei più grandi fotografi del primo ‘900, nell’attesa della creazione di un laboratorio calcografico di ceramica, per colmare un’antica lacuna e ridare lustro e bellezza alla ceramica, considerata da sempre un’arte minore, come nella tradizione degli antichi ceramisti, che per primi inventarono il concetto di spazio e di contorno, come nella pittura greca? Ecco perché ricordare Sergio Vecchio, che incideva col pennello la sua firma indelebile, la sua cifra, il suo gusto e la sua poetica, nelle Stanze dell’Eremita. Ricordare la forza delle sue braccia che sollevavano pietre, distendevano fra l’erba come lenzuoli le carte di Acireale in frammenti d’archeologia, come un libro di storia all’aperto e in pieno sole. Era estate, allora. Nel mio ricordo papà è col suo cane di allora, Ulisse o Giotto, nella cucina di sua madre, mia nonna, una cucina piastrellata, con la stufa e un comignolo nero. Ripercorrendo la sua vita, mi sembra che in quel preciso momento io ho veramente capito che l’arte è sempre entrata nella sua, da una prospettiva angolare, come nei dipinti di Tintoretto, con una tavola apparecchiata e una confusione calorosa. Nonna che officia ai suoi riti in cucina, di schiena o che posa i piatti sulla tavola, e papà che fa il suo ingresso rumoroso con un cane accucciato sempre sotto il tavolo o che si alza con le zampe pronto ad afferrare un tozzo di pane, boccone prelibato per lui, dalle sue mani, al pomodoro. E se ripenso ai suoi quadri, rivedo negli occhi dei cani, delle volpi dallo sguardo furtivo, degli uccellini, delle bufale, i suoi occhi, gli occhi di mio padre, con quel potere che hanno soltanto gli animali, capaci di leggere lo sguardo di un uomo, nella loro tenerezza schiva. Ed è per questo, che mi viene in mente una frase di un film di Truffaut “L’Ultimo Metrò” (1980), perché per me mio padre è l’ultimo giorno che ha vissuto, l’ultimo tramonto che ha guardato e dipinto, la sua ultima dedica per me, l’ultima volta che mi ha aspettato, e questa frase mi ricorda la sua arte e dice pressappoco così: L’amore… “Come un grande avvoltoio plana sopra di noi…” “Sei bella, …così bella che guardarti è una sofferenza. Ieri dicevate che era una gioia. Ĕ una gioia e una sofferenza”. Ma poi ho la certezza che il suo ricordo rivive da solo.
A papà da Viviana