Urania D’Agosto: riappropriarsi della vita - Le Cronache
teatro Spettacolo e Cultura

Urania D’Agosto: riappropriarsi della vita

Urania D’Agosto: riappropriarsi della vita

Trionfo di Maria Sughi sul palcoscenico del Teatro Ghirelli protagonista del testo premio Ubu di Lucia Calamaro, ospite del cartellone di Casa del Contemporaneo

Di ARISTIDE FIORE

La profondità del cosmo come metafora della solitudine, della difficoltà di relazionarsi con gli altri è il tema della  pièce “Urania d’agosto”, una produzione Sardegna Teatro andata in scena al Teatro Ghirelli di Salerno, nell’adattamento di un testo del premio Ubu Lucia Calamaro curato da Davide Iodice, che firma anche la regia e la colonna sonora.

Attraverso le vibrazioni ricche di pathos della voce e gli improvvisi slanci dell’azione, in un’interpretazione intensa molto apprezzata dal pubblico, Maria Grazia Sughi trasmette tutto il disagio, l’insoddisfazione, il rimpianto ma anche l’anelito alla riappropriazione della propria vita di una donna anziana e sola, relegata nella camera di una casa di cura nel pieno dell’estate. Un flusso di parole esplicita la sua riflessione sul passato, sulle difficoltà e i fallimenti nella sfera relazionale, probabilmente accentuati dalla vecchiaia, e da una forma errata di compassione da parte degli altri che emargina, invece di accogliere, denunciata attraverso l’immagine di persone che a poco a poco si liquefanno, trasformandosi nel loro stesso pianto. Non è che l’unico indizio di un estraniamento progressivo dalla realtà. Quasi come un moderno Don Chisciotte in gonnella, attraverso la lettura compulsiva di romanzi di fantascienza, la donna scivola via via nell’alienazione, vagheggiando una vita nuova in una dimensione alternativa, in uno spazio siderale che possa ridarle infinite possibilità, identificate prima di tutto in immaginari viaggi interstellari in compagnia di alieni o astronauti: personaggi le cui vicende improbabili non sembrano poi così diverse da quelle di chi si senta sprofondare nel disagio, fino a distaccarsi anche da se stessa e attribuirsi un altro nome, quello di una famosa collana di libri tascabili di fantascienza, per l’appunto, a sua volta mutuato da quello della musa dell’astronomia. Il flusso di coscienza della protagonista si palesa ancora più efficacemente grazie all’azione parallela di Michela Atzeni, che con le sue delicate pantomime concorre a animare lo spazio scenico ideato da Tiziano Fario, nel quale prevalgono il colore del cielo e il senso del vuoto per ribadire il legame tra lo squallore della stanza spoglia e la dimensione cosmica, alludendo contemporaneamente all’impasse esistenziale e al desiderio di superarla. Trasformandosi grazie ai costumi di Daniela Salernitano, Atzeni incarna figure puramente simboliche o reminiscenze di persone con le quali la protagonista è ancora in contatto. Le infermiere della clinica si presentano come filtrate dalla lente dell’immaginario fantascientifico. I movimenti meccanici di un robot si addicono all’indifferenza di un’addetta al riassetto della stanza, intenta nella masticazione perenne di un chewing gum, mentre la dimensione umana sembra essere recuperata attraverso le amorevoli cure di una fisioterapista che ricorda tanto, nelle movenze aggraziate e nell’abbigliamento, le hostess dell’astronave in un celebre capolavoro di Kubrick, e che, di citazione in citazione, accompagna il movimento della paziente in un esercizio con una palla che sembra richiamare la celebre danza col mappamondo di Chaplin, proprio quando il discorso trasognato di Urania evoca altri mondi, pianeti lontani. Nei panni di una giovane donna con un abito vivacemente colorato allude invece a un passato felice, all’amore, alla gioventù, a gioie e speranze che tenta di afferrare come fiori rapiti da un vento impetuoso. Non a caso sarà questa la figura che accompagnerà le riflessioni della protagonista sull’amore, sul recupero degli affetti e del rapporto con un ipotetico Dio, dai quali trarrà la forza per lo slancio risolutivo. Una fuga immaginaria dalla clausura, lasciandosi alle spalle l’ultimo puntello, uno scimmiotto di pezza eletto allo stesso tempo come estremo oggetto dell’affettività e fonte di sicurezza, permette finalmente di apprezzare quelle piccole grandi cose nelle quali risiede il calore di una vera vita di relazione: le passeggiate con gli amici, le cene al ristorante cinese, il bisogno e il piacere di concedere a se stessi e agli altri tutto il tempo necessario a coltivare relazioni autentiche, a vincere la paura di essere incompresi e respinti, evitando di cercare scorciatoie. La salvezza arriva con un’intuizione, non importa se esatta, quella secondo cui l’universo, tutto ciò che esiste, sia solo il frutto dell’immaginazione di una mente superiore, nato dal bisogno di relazionarsi con qualcuno. La solitudine accomuna la protagonista alla condizione dell’astronauta. Avventurarsi in uno spazio immenso, infinito, pieno di mondi e fenomeni meravigliosi, è affascinante e ricco di possibilità, proprio come il mondo che ci circonda tutti i giorni, con le opportunità di incontri e relazioni che offre, ma che spesso, almeno in determinate condizioni, non si è in grado di cogliere. Non resta che ritrovare la propria capacità di riconoscerne e apprezzarne l’armonia, la musica celeste suonata dell’astronauta sullo sfondo, partendo dalla riscoperta di quella sua porzione che alberga in ognuno.