di Olga Chieffi
Domani sera, alle ore 21, il sipario del Teatro Verdi di Salerno si leverà sul Ferdinando di Annibale Ruccello, che applaudimmo sullo stesso palcoscenico nel tour in occasione del ventennale della morte, con Isa Danieli, attrice per la quale fu concepito. La messinscena cui assisteremo, sarà quella del Teatro Segreto, con protagonista Gea Martire, per la regia di Nadia Baldi. All’alzarsi del sipario si spande già un’atmosfera densa e pregnante. Siamo nel 1870, all’indomani dell’unità d’Italia, nella stanza di un’antica villa vesuviana, dove il calore e la luce del sole esterno e la gioia della vita sono respinti da pesanti persiane. Fra gli arredi e le cortine si attardano i segni di un’antica nobiltà in inesorabile disfacimento. Dentro un letto gremito di cuscini è affondata la protagonista, Donna Clotilde Lucanigro, (Gea Martire) una matura dama dall’umore aspro e pungente, carica di astio verso tutto e tutto, che ha deciso di non lasciare più le coltri di buon lino per protesta ai cambiamenti apportati dall’unità d’Italia. Per sostenersi si nutre della propria ipocondria, di mugugni e di pettegolezzo (“una d’‘e poche cose ca veramente riesceno a te fa’ campa’”). Si sfoga sempre in napoletano, la sola lingua che ha nelle viscere e in bocca contro l’odiato italiano (“’na lengua straniera, barbara, senza sapore e senza storia”). La baronessa Lucanigro, infatti, non vuole parlare italiano, perché quella è la lingua dei dominatori. Si consola facendosi leggere le pagine più ferventi di vanto per l’idioma partenopeo, tra cui la celebre Posilecheata di Pompeo Sarnelli. Sappiamo che Ruccello aveva iniziato la sua attività nel teatro in una chiave antropologica, studiando uno dei testi capitali della tradizione: La cantata dei pastori di Andrea Perrucci, macchina sacra di strepitosa seduzione, citata nel finale. Attorno a lei si aggira indaffarata, china in servile ubbidienza la cugina povera Gesualda, (Chiara Baffi) ingrigita, senza età e senza reazioni. L’arrivo di un giovane parente orfano dotato di una bellezza da cherubino e di una disinvoltura rispettosa e scanzonata, porta negli ambienti in odor di naftalina una folata che intacca la fossilizzazione. È immediata l’attrazione che Ferdinando (Francesco Roccasecca) così si chiama l’adolescente, esercita sulle due donne e sul prete, Don Catellino, figura affidata a Fulvio Cauteruccio che visita quotidianamente la signora e ne sopporta cristianamente gli improperi. E qui cominciano gli scompigli. Le vicende storiche, evocate con distorsioni divertenti dalla baronessa, si intrecciano con quelle private sconvolte dal nuovo ospite della residenza ammuffita. Sono storie insospettate, dissimulate, tinte di ambiguità e ribollenti di passioni che si ingarbugliano in una fantastica progressione fino a esplodere prima di un epilogo screziato di giallo e del tutto inatteso. Il corpo del nuovo regno, è quello di un ragazzo nudo e disponibile agli accoppiamenti meno giudiziosi, pur di ottenere uno scopo. In cambio, come la protagonista sottolinea con dolente visionarietà, questo nuovo mondo di arrampicatori, voltagabbana, non ha memoria. Dovrà at
taccarsi a qualsiasi frammento del “mondo di prima”, per potersi giustificare un ruolo nel mondo. L’analisi che Ruccello compie dei modelli culturali come arma di offesa è finissima, sorprendente: Ferdinando a oltre trent’anni dalla prima, si conferma opera importante: lucida e amarissima visione dei destini italici.