Questa sera, alle ore 21, Daniel Oren sarà sul podio del teatro Verdi per dirigere il complesso titolo del genio italiano
Di OLGA CHIEFFI
Che Macbeth rappresenti una svolta e, più di una scommessa nell’itinerario verdiano, è sottoscritto all’unanimità da tutti i musicologi. Ce ne accorgeremo questa sera, nel nostro teatro, quando alle ore 21, il sipario si solleverà sul complesso titolo verdiano, diretto da Daniel Oren, per la regia e le coreografie firmate da Lina Wertmuller e Daniel Ezralow. La migliore carta che Giuseppe Verdi gioca in Macbeth è quella di escogitare un piano strutturale, tale da dar forza alla sua inventiva, ancora frenata dalla violenza tribunizia degli anni di galera, per indirizzarla ad un uso di ben diversa portata. In parole semplici, la “trivialità” viene usata non più a fini esclamativi, ma quale risorsa strutturale, il che permette di fare di un lessico tuttora embrionale, il perno di una situazione drammaturgica: la raccomandazione che Verdi stesso rivolse in sede di preparazione dell’opera ai due protagonisti in scena fu sempre: “Di studiare bene la posizione e le parole”, perché la musica sarebbe venuta da sé. Per “posizione” doveva intendersi, infatti, quella peculiare virtù, che fu verdiana come poche altre, di trasportare il senso di una frase musicale fuori dei tracciati soliti di ricezione; un tema o un inciso che, a seconda della situazione scenica, possono inverare la loro ingenua, o magari volgare, impronta musicale in territori musicali. Macbeth è terreno fertilissimo di questa ficelle strutturale. Si pensi alla intera pagina che accompagna le streghe, queste creature barbute cui il compositore annette il ruolo di terzo protagonista dell’opera: il loro canto è sguaiato quanto potrebbe esserlo un canto di lavandaie, ma giunge all’ascolto come un’esondazione di zolfo, e nell’istante in cui le streghe annunciano all’impietrito Macbeth la comparsa degli otto re, una misteriosa cantilena, anticipata dai massicci accordi orchestrali in “fortissimo”, affidata alla banda di palcoscenico, evoca fantasie di trista inquietitudine, e tanto poco essa provoca rumore, tanto più suona ad incubo di una coscienza ammalata. Nella carrellata dei personaggi emerge la figura di Lady Macbeth, che segnerà il ritorno di Susanna Branchini, attesa al riscatto dopo la non felice prova nel ruolo di Abigaille, sul palcoscenico del massimo salernitano, che è di una inusitata complessità: la sua malvagità e il suo freddo calcolo di un orrido disegno criminale, si mescolano non di rado a momenti di fragilità e anche di compassione. Il delirio di onnipotenza è lo specchio di una follia per il potere in cui lei trascina Macbeth, cui darà voce il rumeno George Petean, che Verdi vuole quasi meno coinvolto e più succube, affidandogli pagine brillanti ma capaci di estrema introspezione: pensiamo al duetto dei vaticini e all’aria finale “Pietà, rispetto, amore…”. Le arie di Lady Macbeth, che giganteggia costantemente sulla scena sono scritte per una tessitura inconsueta, solo a tratti per soprano drammatico di agilità, più volte tendente al registro di mezzosoprano, ma a cui si richiedono potenza e versatilità, estensione sia nella tenuta del registro grave che nella necessità di una tecnica inappuntabile, per esempio nelle parti sopracute nella scena del sonnambulismo. A parte l’aria iniziale “Vieni! T’affretta…” con la brillantissima cabaletta “Or tutti sorgete…”, per il resto il compositore le costruisce un’ambientazione musicale lugubre, gravida di tensione e di paure. L’influenza shakespeariana, che permetterà poi a Verdi di realizzare altri capolavori come Otello e Falstaff nell’ultima parte della sua vita, gli consente di dare la svolta necessaria all’opera italiana che col Maestro e i suoi epigoni giungerà a costruire capolavori per la scena fino ai primi decenni del Novecento. Era la fine del “belcanto” italiano e la nascita dell’opera nuova.