“R.Osa”, il corpo in gioco - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Spettacolo e Cultura teatro

“R.Osa”, il corpo in gioco

“R.Osa”, il corpo in gioco

Di Gemma Criscuoli

“Il tuo sorriso è come un respiro di primavera// la tua voce è leggera come una pioggia estiva” recita il testo di Jolene di Dolly Parton, cantato dalla protagonista nei primi momenti della sua performance. E se credete che tale lirismo non sia adatto a lei (tanti chili di troppo strizzati in un improbabile body) è solo perchè non conoscete la vera leggerezza. Applaudito presso la Sala Pasolini, dove ha saputo diffondere un sano sconcerto in un pubblico tendenzialmente pigro, “R.Osa”, ospite del cartellone del Teatro Pubblico Campano, di cui Silvia Gribaudi ha curato il concept, la coreografia e la regia e che vede in campo una Claudia A. Marsicano di eccezionale energia, è una sfida ironica e non certo innocua a tutto quello che si crede di conoscere sulla bellezza : armonia, avvenenza, rassicurate esilità. Il culto della forma invidiabile, si sa, non conosce tramonto e proprio per questo va smascherato, stravolto, risemantizzato nella sua ridicola pretesa di omologazione. Il corpo non è una categoria, per quanto venga continuamente e impietosamente percepito come tale: è un campo di forze in cui ridisegnare dinamiche. Da qui la scelta di Jolene, storia di una donna tanto affascinante che bisogna scongiurarla di non sottrarre a chi canta l’uomo di cui è innamorata. Non è, come potrebbe sembrare, un elogio della competizione: è un abbandono a ciò che seduce come rinascita liberatoria, ben oltre tutto quello che i canoni possano codificare. Attuare tale discorso estetico sbeffeggiando l’aerobica e coinvolgendo gli spettatori in una serie di esercizi scioglimuscoli, che trasformano il teatro in una surreale palestra, risulta fuori contesto, se non fuori di chiave, a chi è privo di fantasia. Eppure è proprio nella dimensione del palcoscenico che tutto questo deve succedere : non è forse un ego di gran lunga più ingombrante dell’adipe a spingere a un lavoro di ricostruzione di sè tanto meticoloso quanto paradossale? Ecco allora che l’artista si esprime in inglese proprio come le personal trainer di un tempo, creduto a torto lontano, quando urlavano giulive ordini implacabili per modellare la massa, nel duplice senso di aggregato di muscoli e di folla indistinta. La canzone iniziale, poi, viene interpretata di colpo a rotta di collo, con un rimo forsennato da moviola impazzita, perché non si può perdere tempo, quando l’obiettivo è diventare straordinariamente tonici. Inspirare ed espirare pettoruti come sovrani, mantenere una fissità icastica per poi muoversi a tempo sono pratiche che conducono gli spettatori in una duplice direzione: cogliere dall’interno l’aspetto risibile di una tirannica abitudine alla perfezione e comprendere la sostanziale unicità di ogni figura, il suo essere segno in un mare di convenzioni cieche. C’è un momento in cui Marsicano batte la mano sul proprio corpo, creando in tal modo l’andatura ritmica di un nuovo canto. Le membra diventano strumento, occasione di nuovo sguardo e nuovo ascolto. Ciò che ognuno di noi può produrre, simboleggiare, vivere si trasforma in un dialogo con la parte profonda del sé e con il contesto senza condizionamenti, aspettative o abbagli. Non a caso, la donna si produce in piroette, in capriole, in movimenti complessi anche per una silfide per poi limitarsi a occupare lo spazio scenico tra sguardi estatici e languidi cedimenti a un riposo che non è stasi, ma accoglienza di sensazioni che fluiscono autonomamente. Anche il proposito di giocare sull’assonanza world/word, trasformando i vocaboli rombo e forchetta in una sorta di musica senza strumenti, non pretende di essere una via nuova (le parole costruiscono da sempre il mondo), ma vuole ricordare, con la franchezza di una bimba presa dal suo passatempo, che l’uomo (meglio: l’umano) è davvero la misura di tutte le cose. E se l’umano è mappa e destinazione, strada e meta, ciò che emerge dalla pelle e dalla volontà può portarci in ogni dove. Non si dimentichi che già Oscar Wilde affermava che il vero mistero è il visibile, non l’invisibile e restituire al corpo un diritto di cittadinanza, che è a sua volta preziosa opportunità di continua riscoperta, sa essere inebriante. I movimenti facciali sulle note di “Toxic”, inoltre, riservano al volto la stessa libertà delle membra, la stessa forza irridente nei confronti dell’assodato. E quando la performer si congeda, versando dell’acqua sul palco e scivolando come una deliziosa sirena hollywoodiana, si comprende allora come la levità sia irresistibile e tenera in un mondo che le preferisce le zavorre di tante, troppe nevrosi.