di Elio Giusto*
Negli ultimi anni la medicina sembra aver imboccato una strada sempre più farmacocentrica. Ogni nuova molecola viene accolta come una promessa di rivoluzione, ogni meccanismo d’azione come un passo avanti verso la “medicina del futuro”. I farmaci diventano protagonisti assoluti del discorso sanitario, mentre tutto ciò che riguarda la prevenzione, l’educazione e il cambiamento degli stili di vita scivola lentamente sullo sfondo. Non si tratta di negare i progressi straordinari della farmacologia moderna: le nuove terapie hanno migliorato la sopravvivenza, ridotto le complicanze, aumentato la qualità di vita di milioni di persone. Il problema è l’uso che ne stiamo facendo — e soprattutto il significato che stiamo attribuendo al farmaco. Sempre più spesso la cura viene confusa con la prescrizione. L’idea che un problema biologico o comportamentale possa essere “risolto” con un principio attivo rischia di sostituire la cultura della responsabilità con quella della compensazione. La colpa, però, non è del medico di medicina generale, come talvolta si è portati a credere. Anzi, il medico di famiglia vive quotidianamente l’equilibrio più difficile: quello tra la necessità di curare il singolo paziente e il dovere di preservare le risorse collettive. Ogni prescrizione è un atto etico oltre che clinico. Ma il contesto in cui opera è spesso già indirizzato da decisioni prese altrove — da linee guida costruite su modelli farmacologici, da pressioni commerciali, da aspettative sociali e culturali che identificano la salute con il consumo di cure. La vera spinta all’iper-prescrizione nasce a monte: in un sistema che premia la tecnologia più della relazione, l’innovazione più della continuità, la velocità del risultato più della profondità del cambiamento. Un sistema dove la prevenzione non è finanziata, dove l’educazione sanitaria non è strutturata, dove il tempo dedicato all’ascolto vale meno di quello dedicato alla compilazione di una ricetta. Eppure è proprio nella prevenzione e nell’educazione che si costruisce la sostenibilità. Il concetto di QALY (Quality Adjusted Life Year) — l’anno di vita aggiustato per la qualità — ci ricorda che la vera misura del valore di una cura non è solo quanto allunga la vita, ma quanto migliora il modo di viverla. Un intervento può essere efficace, ma se il costo per QALY guadagnato è sproporzionato rispetto a soluzioni non farmacologiche, allora la sua adozione indiscriminata non è giustificabile né clinicamente né eticamente. Tuttavia, nella pratica quotidiana, questa riflessione tende a scomparire. L’entusiasmo per la “novità terapeutica” prevale sulla valutazione della proporzionalità. Il farmaco diventa la risposta immediata a ogni richiesta di benessere, mentre mancano risorse e percorsi per educare, motivare, accompagnare i pazienti verso il cambiamento. Così il sistema sanitario rischia di trasformarsi in una macchina che finanzia il consumo di salute più che la sua costruzione. La vera sostenibilità, invece, nasce da una cultura della cura che metta al centro la persona, non la molecola. Una medicina che riconosca il valore della gradualità, dell’educazione, della relazione terapeutica. Perché la salute non si riduce alla somma dei trattamenti ricevuti, e un anno di vita buona non si misura solo in parametri biochimici o in farmaci somministrati. La sfida del futuro non è trovare il farmaco giusto per ogni malattia, ma ritrovare il senso della cura in un sistema che, troppo spesso, ha imparato a guarire ma ha dimenticato come accompagnare le persone nel loro percorso di salute. *Segretario provinciale generale FIMMG SALERNO





