Una Carmen figlia di questi tempi - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Una Carmen figlia di questi tempi

Una Carmen figlia di questi tempi

Di Olga Chieffi

Carmen o Forza del Destino, Ballo in maschera o Macbeth? Questi i sussurri in platea dopo il primo atto della Carmen di Georges Bizet, che ha inaugurato la ripresa della stagione lirica del teatro Verdi di Salerno. La regia di Plamen Kartaloff, oramai, di stanza al massimo cittadino, che lo ha visto già protagonista in Bohème, in Die Walkure, quindi, in Carmen e che risaluteremo in Nabucco, presenza frutto dei cosiddetti “scambi” con l’opera di Sofia, dove Salerno ha inviato il nostro Daniel Oren per una Tosca in settembre ed un Rigoletto ed un gala con la splendida Asmik Grigorian a novembre, ha inteso contrapporre il principio occidentale di stasi, spazio, costruzione, pietra affidato al coro in maschera e saio nero, con l’istante infinito, che brucia, che è, poi, quello dell’arte e di amore, senza fissa dimora, in fuga, appartenente al modus vivendi dello zingaro. Coro che ha quasi trasformato l’opera in forma semiscenica, claustrofobica, oscura per i primi due atti, interamente giocata su di una piattaforma rotante rossa, con le tre Moire, Cloto, Lachesi e Atropo, a tirare le fila del destino di tutti i personaggi principali, figure femminili, pensate, dal regista, non si sa per quale idea, al maschile. La piazza non si anima, non si crea l’attesa delle sigaraie, sur la place niente chacun passe, chacun vient, chacun va, neanche i bambini marciano, ma giocano con gli animali della corrida, cavalli e tori, idea registica che ha tolto all’opera quelle spezie, quei profumi, quel tocco frizzante, quella sfrontata leggerezza, che è prerogativa di quest’opera “scandalosa”. Daniel Oren ha proposto, giustamente, la versione in francese originariamente scritta come un’opéra-comique con dialoghi parlati, che non facevano parte della musica, secondo la tradizione del genere. Daniel Oren crediamo conosca benissimo il segreto della Carmen. Purtroppo quello spolvero, quella fluidità di esecuzione, la può dare unicamente l’assoluta sicurezza su di una partitura, tra l’altro anche ampia. Il segreto di quest’opera è nella difficile coesistenza del contenuto tragico col tono operettistico di buona parte della partitura: o si riesce a conciliare questi estremi, o altrimenti non sarà mai possibile ascoltare un’esecuzione perfetta di questo, forse impossibile, capolavoro. Daniel Oren non è riuscito ad ottenere il massimo dall’ orchestra, anzi il meno del solito, non azzardando consapevolmente, il passo più lungo della gamba, senza farsi assolutamente distrarre dalle ghirlande di fiori (fiori di melodia e soprattutto di ritmi brillanti) che punteggiano la partitura, pur avendo prestato qualche rilievo, a qualche timbro isolato e puro, quale quello dello splendido primo corno francese, Hugh Sisley e, pari, il corno inglese, Antonio Rufo, con i legni senza amalgama, intonazione, intenzione e tanta ansia, in particolare tra oboe e flauto, i quali si sono “cercati” per l’intera opera senza alcun successo. Attenzione spostata, allora, dalla sezione che era fiore all’occhiello della formazione, agli ottoni e agli archi scuri, che hanno svolto bene il proprio compito, mentre non possiamo così dire dei due cori diretti da Francesco Aliberti e Silvana Noschese, in particolare sulla Plaza de Toros, troppo verdi le voci dei ragazzi del nostro conservatorio, abituati ad altri generi, per affrontare un cimento di tal genere, come anche le voci bianche per le quali si è notato il ricambio generazionale, e per le quali ci sentiamo di plaudire solo il primo atto. Se l’orchestra è da rivedere, in particolare in vista del Nabucco, opera clou in cartellone, il cast dei cantanti è stato scelto dalle varie agenzie ad hoc per il nostro piccolo teatro. La Maria Kataeva ha intonato con giusta sensualità e musicalità la celebre habanera, così pure la seguidilla, con i suoi abiti che dal solo corpetto rosso calato nel nero hanno offerto sempre più spazio al colore della passione, sino alla sfida finale con Don Josè, con lo specchio inclinato sulla piattaforma, stringere il cerchio, lo spazio, il tempo, in una spirale di morte, fino all’accoltellamento, tra profonda disperazione, sgomento del vuoto spaventoso che circonda i due protagonisti, nonché, l’incomprensibilità del linguaggio d’amore di Carmen, che fa esplodere quell’irruenza violenta del finale, che ancora una volta Kartaloff, come in Bohème non chiude con la protagonista riversa in terra, ma congedandola viva, trasformandola in quella rosa rossa piantata sulla piattaforma sin dalla sua apparizione. Il tenore Jean Françoise Borras, forse messo a cantare quasi sempre in fondo al palcoscenico, se non nel finale, non ha convinto sia per volume che per timbro, parimenti alla sua, quasi del tutto nulla, partecipazione attoriale, in un’opera ove si ha da toccare con mano la disperazione di chi è preda del demone Amore, che prende in essa le forme del symbolon, ovvero del difetto che attinge un eccesso, del basso che si congiunge in eros, di chi è continuamente disfatto da ciò che è o appare d’essere, in un continuo respingersi e disperarsi, imprendibile nella sua forza di syn-ballein, che aspira-insieme e si proietta turbinosa come un gorgo marino, plastica e plasmante. Ancora la affettata Micaela della Sabina Puertolas, vestita come da tradizione con i capelli lunghi biondi, in bianco e celeste, incluso il moderno zainetto in pelle, tanto vibrato e diversi fiati cosiddetti dello “spavento”, sicuramente non previsti, e ancora un Claudio Sgura perfetto in traje de luce, ma senza il carisma del dio dell’arena, nella sua voce che fondasi oggi, completamente sulla grande esperienza accumulata in una lunga carriera. Comprimaria d’eccezione, la Frasquita di Daniela Cappiello, bella voce quella di Angela Schisano Mercedes, ma duetto non perfetto quello delle carte, alla prima, mentre per i ruoli baritonali minori è tempo che debutti qualche giovane di belle speranze, al posto di Carlo Striuli, salernitano d’adozione, che è salito in palcoscenico indossando i panni di Zuniga. Tutti commendevoli, a completamento del cast, Roberto Accurso Le Dancaire e Blagoj Nacoski Le Remendado e in linea anche il Morales di Yoann Dubruque. Da plauso il lavoro dei ballerini che hanno animato i couplet, nonché evocato lo scontro tra la Carmencita e la Manuelita, laddove il coro fisicamente non è mai potuto entrare in gioco, assiso sugli staggi in anfiteatro, quindi, palmas alte, ma niente tacchi per l’accenno di flamenco e le danze della taverna, con le coreografie di Pina Testa. Applausi tiepidi alla prima, che attendeva una Carmen dal sapore decisamente andaluso e mediterraneo.