Ci sono cadute politiche rumorose e altre silenziose, ma non per questo meno clamorose. Quella di Roberto Fico appartiene alla seconda categoria: un lento scivolamento, quasi impercettibile, dal pulpito dei valori alla palude delle convenienze. L’ex presidente della Camera, che per anni ha costruito la propria immagine su moralismo e purezza, oggi si presenta come candidato alla presidenza della Regione Campania rinnegando, uno dopo l’altro, tutti i principi che lo avevano reso simbolo della “diversità” grillina. Fico aveva promesso un nuovo modo di fare politica, fatto di trasparenza, coerenza, rispetto delle regole e soprattutto di distanza dalle logiche del potere. Oggi, invece, per provare a sopravvivere politicamente, si affida a quelle stesse dinamiche che per anni aveva condannato con toni sprezzanti. Ha annunciato un “codice etico” che non ha mai visto la luce, ha sbandierato la volontà di costruire una squadra di “volti nuovi” e “civici autentici”, salvo poi candidare chi lui stesso, in tempi non lontani, aveva escluso con fermezza. Le sue conferenze e i suoi convegni, un tempo vetrine del moralismo militante, oggi si svuotano di contenuti e di pubblico. Poche persone, molte sedie vuote e l’eco di parole che non convincono più nessuno. Il suo progetto, che avrebbe dovuto rappresentare il riscatto di una politica “alta”, appare invece come l’ennesima operazione di facciata, priva di slancio e di credibilità. Perché quando la coerenza viene meno, anche il più raffinato storytelling crolla come un castello di sabbia. Fico aveva l’occasione di incarnare davvero un modello diverso di leadership: sobria, credibile, rigorosa. Invece ha scelto la strada più comoda, quella del compromesso e della contraddizione. Ha sacrificato la sostanza sull’altare della sopravvivenza politica. E così l’uomo che predicava il rinnovamento è diventato simbolo della continuità più deludente. Oggi la sua candidatura non scalda i cuori, non mobilita energie, non rappresenta nulla di nuovo. È la fotografia di un leader svuotato, che parla a un popolo che non lo ascolta più. Se questo è l’inizio, c’è da chiedersi cosa potrà mai essere il seguito. Perché quando si comincia rinunciando ai propri principi, la fine non può che essere una resa totale. E poi c’è la realtà, quella che nessuna propaganda può nascondere: in Campania, chi comanda continuerà a chiamarsi Vincenzo De Luca. Fico, anche nella più ottimistica delle ipotesi, non sarà che una comparsa in uno spettacolo scritto e diretto da altri. Un nome in locandina, non l’autore del copione. Il suo spazio politico, già fragile, rischia di ridursi al ruolo di spettatore in platea, applaudendo a comando il potere che fingeva di voler scalfire. Il Fico che voleva “aprire il Palazzo come una scatoletta di tonno” è ormai diventato parte integrante del sistema che voleva scardinare. E così, più che una candidatura, la sua sembra una malinconica autopsia politica: quella di un uomo che, pur di restare in gioco, ha smarrito se stesso. La morale, se ancora gliene resta una, è semplice: chi predica l’etica dovrebbe ricordare che la coerenza non si improvvisa e che i valori non sono un vestito da indossare solo quando conviene. Perché la politica, prima o poi, presenta sempre il conto. E per Roberto Fico quel conto è appena arrivato. Irene Sarno





