“Poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno”. E’ un verso del XXXIII canto dell’Inferno di Dante. Una terribile frase pronunciata dal conte Ugolino per alludere a quanto la fame sia stata l’elemento più potente e terrificante della tragica fine, sua e dei suoi figli. Ed è l’immagine spesso suscitata – in me e penso in molti altri – dalle sofferenze del popolo palestinese. Bombardato, decimato, sfinito dalle morti, dal dolore….e dalla fame.
Si esulta, eppure c’è un dubbio sottile. Che tutto è ancora possibile, al limite della credibilità
Inutile sottolinearlo. Le notizie rimbalzate dai media di tutto il mondo ci hanno sollevato dall’oppressione di questi due anni di angoscia, fino a spingerci tutti verso una esultanza ed una gioia liberatoria. Eppure, eppure c’è qualcosa che non quadra, che ci frena, che ci spinge al dubbio che tutto è ancora possibile. Fino al sospetto che tutto quello che si dice e si è scritto troppo in fretta stia sulla soglia della non credibilità. Netanyahu, ad esempio, avete notato? È l’unico che non ha fatto dichiarazioni per celebrare la “giornata storica”. Silenzio assoluto. Un segno che induce al sospetto. Di lui ricordiamo una frase storica gridata al mondo: “Non ci sarà mai un popolo palestinese”. Ed ora invece abbracci, congratulazioni, frasi smozzicate lungo un silenzio assordante. Forse nasconde qualcosa? Speriamo davvero di no. E su tutti e tutto, il Piano di Pace con i 20 punti di Trump. Che accennano, cercano di aprire uno spiraglio, ma non esprimono pienamente. Si parla di un autogoverno, del disarmo di Hamas, di Tony Blair, del coordinamento dello stesso Trump. Ma nessun riferimento alla autodeterminazione del popolo palestinese. Si vaga nella semioscurità della storia. C’è persino il dubbio (forte) che non esista sul serio un popolo palestinese. Che è originario sì della Palestina, parla la lingua araba e professa in larga maggioranza la religione islamica sunnita. Ma nel mondo vivono circa 14 milioni di palestinesi. Anche in seguito all’esodo del 1948, una parte significativa di essi risiede in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, eppure la maggioranza – composta da profughi, emigrati e cittadini arabi di Israele – vive in altri Paesi. Insomma i palestinesi sono una componente del più vasto popolo arabo, ma nel corso del Novecento hanno sviluppato una specifica identità nazionale, che oggi è molto sentita dalla popolazione.
Eppure uno Stato di Palestina sembra non esista ancora o, se lo si proclama, non è riconosciuto a livello internazionale
Molti infatti si chiedono perché questa guerra? Sì, è vero, c’è stato il tragico spaventoso episodio dell’attacco terroristico di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023. Ma la reazione di Netanyahu è stata terrificante. Contro Hamas ma anche contro cittadini inermi. Cosa c’è dietro? C’è una storia di secoli che riguarda i confini, lo status degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Il mondo è quindi chiamato a chiarire e a decidere, aiutando il processo di riconoscimento. In ogni caso, l’atteggiamento di Trump resta perfettamente in linea con la sua storica prepotenza ed’arroganza che spesso sconfinano nella megalomania demenziale da cui è afflitto. E di qui l’accusa di molti giuristi di violazione dei principi fondamentali di legge internazionale: dall’impedimento del diritto all’autodeterminazione palestinese, fino al controllo straniero mascherato da mediazione, ed all’assenza totale di meccanismi di responsabilità per i crimini israeliani sconfinati in quello che molti definiscono un autentico genocidio: 65mila civili morti, di cui 20mila bambini. Numeri spaventosi, che ti stringono il cuore. Trump e Netanyahu vogliono passare alla storia come risolutori di guerre, come eroi della pace. Trump rischia addirittura di essere insignito del Nobel per la pace cui si è già autocandidato. Se fosse così, un ridicolo scandalo che annienterebbe il credito dell’Accademia di Stoccolma. Ma intanto perché Israele non ritira i carri armati? Mentre annuncia invece che resteranno lì nell’estremo Sud della Striscia di Gaza al confine con l’Egitto?
Allora, c’è dell’altro che spieghi la furia sopita israeliana e la caparbia pervicacia mediatica di Trump?
Certo che c’è. Innanzitutto i piani immobiliari di Trump. Avete mai visto chi siede spesso al fianco del biondone a stelle e strisce, quando si parla di Gaza? E’ Jared Kushner, consulente presidenziale, co-ideatore del piano, perché imprenditore palazzinaro, ma soprattutto perché genero di Donald in quanto marito della figlia Ivanka. E già immaginiamo il vostro “Aaah, mò si spiega”. Il 7 ottobre 2025, Jared era presente ai colloqui di Sharm El-Sheikh in Egitto. Jared c’era in rappresentanza del suocero presidente. Ma a quale titolo? Forse come come garante della ricostruzione di Gaza? Una volta espulsi i palestinesi, per lasciare il campo alla spartizione dellaStriscia di Gaza e del gas dell’immenso giacimento a km 37 ca. dalla spiaggia palestinese? Già appaltato agli avvoltoi americani, arabi e amici adiacenti? Il dubbio è forte. Ecco perché il nostro titolo “sceneggiata da bazar”. E quindi, prima di gioire, io consiglio di attendere la piega che prenderà Gaza question. Godiamoci invece il primo sospiro sollievo per la, speriamo, imminente liberazione degli ostaggi israeliani. Pensate, solo 20 dei 250 rapiti. E gli altri? Solo corpi, o quel che resta dopo due anni. E’ incomprensibile che Netanyahu liberi più di un migliaio di temibili terroristi in prigione, in cambio di 20 persone. E’ un altro dei grandi misteri dietro i quali si celano gli interessi di Trump e dell’intero Occidente.
Non c’è altro da dire, se non che viviamo in un mondo di cattivi. Giorgia in testa, secondo “The Politico”
Sono infatti solo un ricordo i buoni di appena ieri come Gorbaciov e George Bush, ricordate?, gli eroi della fine della guerra fredda, ma anche Angela Merkel, Obama ed altri. La classifica dei leader cattivi oggi la fa un magazine statunitense dal nome italiano, “Te Politico”. E’ una classifica che loro chiamano dei disruptors, influenti ma disgregatori. Al primo posto, non ci crederete, è Giorgia Meloni. Che loro definiscono con l’appellativo italiano di “La Duce”. Accanto a lei, Orban, Mélenchon, Erdogan, Marine Le Pen, Timmermans, ed ovviamente Putin. Lei, la Giorgia – dice The Politico -farebbe ogni sforzo per non presentarsi minacciosa. Una volta sosteneva l’uscita dell’Italia dall’Eurozona, e si opponeva alle sanzioni contro Mosca dopo che la Russia ha invaso la Crimea nel 2014. Ma in questi ultimi tempi si si sarebbe data da fare per far sapere ai suoi interlocutori, in Europa e in Occidente, che è invece una grande fan della Nato, della linea dura col Cremlino, e che non vuole in alcun modo lasciare l’Unione europea. Lei – prosegue The Politico – non è altro che un tentativo di brand washing, di ripulire la faccia del proprio partito, e anche la sua, da un passato che li vede entrambi legati strettamente alla tradizione fascista e neofascista italiana. Tanto che, aggiungono, “quando gli eurocrati non stanno a guardare, la Meloni dà il massimo, inveendo contro l’immigrazione e la propaganda di genere, paragonando il facile accesso all’aborto alla cultura della morte”. Una descrizione brutta. Cui molti italiani invece sembrano non credere, accreditandola come il politico più amato del Paese. Cose che si leggono, in un verso e nell’altro. Noi invece dobbiamo restare attenti, razionali, obiettivi, noncuranti dei social. E soprattutto, come ripeto spesso, uniti.