Di Michele Amoruso
Il Sud, quello italiano, quello europeo, quello del mondo tutto, quello denigrato, quello invidiato, è nato in una notte di tempi antidiluviani con una malformazione genetica congenita che gli è croce ed anche delizia: è nato col fuoco dentro. Col fuoco dei suoi vulcani, col fuoco dei suoi amori passionali, delle sue storie cruente, dei suoi fuochi pirotecnici alla presenza di Santi e Sovrani, dei suoi forni da cucina e per l’arte (della quotidianità). Non desta meraviglia, quindi, il suo legame viscerale con uno dei prodotti più veri e materici del fuoco stesso: la ceramica. E, come in una continua forgia d’amore, il legame si schiude in chi il fuoco lo usa per produrre e in chi quel prodotto lo attende, quando il fuoco sarà poi placatosi per presentare la sua fatica. E tra le tante faville da forno, c’è la storia del Larghetto Cassavecchia, antica sede degli uffici di tesoreria nel ventre scricchiolante di Salerno. Qui, nel 1987, Alfonso Tafuri ha fondato una collezione privata di ceramiche negli ambienti di palazzo Mancuso, ai cui vani ha affidato l’invano compito di proteggere e conservare una vita di sacrifici, trattative, ceramiche e riggiole, memorie e fantasmi. Alfonso Tafuri, l’orafo gentiluomo, alla pugna in difesa delle cose belle, dalla violenza delle cose che non lo sono. Queste righe, va detto, non sono un memoriale biografico della sua opera, del suo impegno, della sua vita: chi scrive appartiene ad una recente e troppo poco pingue generazione che, orfana della persona, nel mare magnum delle distrazioni globali, si ferma sovente a godere i frutti delle eredità. L’esecutore testamentario, o meglio l’esecutrice, è Simona Tafuri. Nipote di Don Alfonso, figlia discendente di una scuola di pensiero che trova alcova proprio nel fiato del fratello del padre, madre chioccia di un museo chiuso. Perché per visitare quegli ambienti Simona deve venire ad aprirlo: su richiesta, negli eventi, per gli amanti, per sé stessa innanzitutto. E allora le spiegazioni tecniche si fondono, si mescono ad aneddoti, s’accantonano dando spazio ai magoni, ai ricordi, alle polveri stanche ed assonnate che lo scorrer del tempo continua a cospargere tra cuori e teche. Pochi scalini, un chiavistello rumoroso, le luci che vanno a sbattere sulle superfici riflettenti e svegliano confusamente pigmenti, disegni, ciucci, madonne. Ogni pezzo ha una sua storia, ogni crepa, ogni rottura lamentano un travaglio teatrale che si confà solo ai pezzi da museo. A cui è richiesta la capacità di convincere i visitatori di essere unici, non tanto per semplici e meri meriti da collezionismo, ma per quella sensibilità che, per obblighi lavorativi o di missione, sono portati a formare o stimolare. La collezione Tafuri è popolesca, semplice, più vicina alle persone della strada, dei vicoli, delle case abbracciate, che a quelle di una società idealizzata, dipinta, teorizzata. Si estende in una forbice temporale larga, molto densa: i frammenti più antichi buttano la storia all’indietro sino al XIV secolo, manufatti di forme aperte e chiuse, elementi vegetali e geometrici, di verdi ramina e bianchi ingialliti. E s’arriva quasi ai giorni nostri, per quanto quel fervore artistico, produttivo, nostro più non è. È la ceramica del periodo tedesco, che trovò fortuna prima a Vietri e poi fece scuola un po’ in giro nel suo periodo di vita felice e fertile. Le pareti delle riggiole s’attaccano all’occhio con più caparbietà. Stanno lì, messe vicine, tutte sullo stesso piano verticale, tutte pronte ad esser interrogate. Sono il frutto felice di una lunga opera di conservazione ed il frutto amaro di una veloce ed affannata trasformazione dell’arredo interno. La riggiola smaltata, di scuola vietrese e a volte d’ispirazione napoletana, ha lasciato il posto, il passo, ai pavimenti dozzinali e disimpegnati dei nostri tempi, scarichi di tradizione e ancor più spesso di qualità. Don Alfonso le ha raccolte, se le è fatte consegnare, le ha richieste, trovate, custodite, riesumate dagli immondezzai, dalle discariche, dai calcinacci, dai depositi. Perché non tutti i musei nascono tra le stanze imbellettate di casate e discendenze, alcune, tante, sono la misericordia accorata ed appassionata di uomini sacrificati al proprio amore, alla propria missione. Si scende qualche altro scalino, il palazzo si attorciglia su sé stesso e s’apre nel suo grembo più sotterraneo: altri pezzi, altre storie, c’è lo studiolo di Don Alfonso, la sua cantina, i suoi vini. È di sicuro la parte più intima del museo, dove la polvere è la placenta di una collezione svelata e di un luogo sacro, che forse odora ancora dei sigari di Tafuri o forse è solo suggestione, ma comunque in ambo i casi tutto contribuisce a preservarne mito, magia e poesia. Simona è fiera di tutto ciò, lo si vede da quanto passionali ed appassionate sono le sue spiegazioni, dette e ridette forse dieci, cento, mille volte e mai stanche, mai frettolose. Salerno si concede, a volte, di ritornarci in quel museo, come quando si fa visita ad una persona anziana che per affetto o sensi di colpa, siamo portati ad incontrare e sospirare nell’averla trovata ancora viva. Eppure bisogna stare attenti, bisogna evitare di portarsi sulla coscienza rimorsi pericolosi: quello dei musei è un periodaccio di crisi e soffocamento, in bilico c’è la sopravvivenza di tutti quei luoghi in cui la coscienza si lava della trivialità quotidiana, per mettersi a mollo con cuore e testa in emozioni necessarie, efficaci. Simona questo lo sa, e tra i salti mortali di una vita che va comunque e necessariamente vissuta, tra buste della spesa e bollette, difende con caparbietà dalla ruggine i lucchetti di quel museo, affinché s’aprano per tutti. E fin tanto che troverà la forza, perché per amore ed affetto la motivazione non s’adombrerà mai, noi sapremo sempre di poter far visita al museo di Alfonso Tafuri, dove in vita c’è uno dei più grandi lasciti che Salerno abbia mai ricevuto: l’amore per essa.