Questo 25 aprile ha segnato l’ottantesimo anniversario della Liberazione, una ricorrenza celebrata in tutta Italia con manifestazioni e cortei che ne ripercorrono le profonde ragioni storiche. Tuttavia, analizzando i numerosi resoconti pervenutici, emerge una prospettiva spesso in ombra: quella della massa popolare, protagonista silenziosa ma fondamentale di quei momenti cruciali. Le aspirazioni che animavano il cuore della gente comune si condensavano in ideali di libertà di pensiero, promesse di nuove primavere e la fiduciosa speranza in un’esistenza serena e luminosa. Si anelava a non vivere più sotto il peso opprimente della paura e del controllo costante. La scintilla che innescò la svolta radicale fu il diffuso malcontento popolare, che si manifestò in una spontanea ribellione al giogo dell’obbedienza cieca. Già nelle prime fasi del conflitto bellico, nonostante le restrizioni imposte, si radicò nella coscienza collettiva una negazione della logica bellicista – un sentimento espresso con forza nel lapidario motto: “chi lavora non vede nemici”. Con il passare dei giorni, questo rifiuto si fece sempre più manifesto, traducendosi in una crescente resistenza all’ascolto di proclami percepiti come insensati e intrisi di frustrazione. Numerosi furono gli episodi di disobbedienza civile, tra cui il rifiuto di consegnare parte dei raccolti e dei beni prodotti; questi ammassi divennero anche occasione di illecito arricchimento per i gerarchi a spese della popolazione. Testimonianze silenziose ma eloquenti di un’insofferenza che serpeggiava nel tessuto sociale.Mentre oggi celebriamo la fine dell’oppressione e la riconquista della libertà, è imprescindibile ricordare e dare risalto a quel sentire popolare, a quelle speranze semplici e profonde che alimentarono la lotta per un futuro di dignità. Un futuro che, ottant’anni dopo, coloro che ogni mattina si dedicano al sostentamento quotidiano continuano a onorare e a preservare. Il popolo, nella sua saggezza, riconosce non nemici, ma opportunità di scambio e amicizia. Non a caso, un adagio popolare, ancora vivo nei piccoli borghi e tramandato dagli anziani, ammonisce e consiglia: “vicino mio, fiato mio”, un inno alla solidarietà e alla convivenza pacifica.
Giovanni Terranova





