di AVito Pinto
Con intelligente amarezza, nella raccolta “E’ fatto giorno”, il poeta di Tricarico di Lucania, Rocco Scotellaro, scriveva: «E’ bello fare i pezzenti a Natale perché i ricchi allora sono buoni: è bello il presepe a Natale che tiene l’agnello in mezzo ai leoni»; saggezza antica di quel mondo contadino, da lui cantato e difeso, che già di per sé rappresenta il Presepe, quella figurazione che da Greggio in poi ogni famiglia ama allestire per la festa più arcana dell’anno: la nascita di un Bambinello, “Re del Cielo disceso dalle Stelle”. Una festa che, in vario modo, tutti nel mondo rispettano; una festa che nei nostri territori campani ha trovato nel mondo della ceramica la sua espressione di alta fantasia, popolando una immaginaria Betlemme di figure fantastiche e luoghi immaginifici. Dove, infatti, se non in questa “terra felix” poteva prendere vita Cicciobacco, trasportatore di botti di vino, o Benino, pastore dormiente, e quella banda di mori che accompagna la festa per non parlare dei pastori della meraviglia. E come poteva mancare quel mondo mangereccio, sognato dal popolo per un intero anno e che a Natale si materializzava in salsicce, soppersate e capponi. Magia della fantasia e forza di fede la cui sintesi è nella statuina del bambino che offre un maialino avanti alla grotta: è qui il vero messaggio natalizio, perché, alla fine, è la gente più umile e povera ad avere la capacità di essere solidale con gli altri, di saper offrire i suoi doni, per quanto semplici possano essere. Quanta poesia per quell’evento in cui “era notte e pareva miezzojuorno”! E in questo mondo di argilla si sono mosse delle figure dell’universo presepiale ormai mitiche, come Marietta Arcella, nota come Mariettella, madre di quell’Andrea D’Arienzo che con Guido Gambone seppe scrivere una importante pagina della storia ceramica vietrese. Donna piccola, minuta, con occhi “birbanti”, Mariettella aveva, al Corso Umberto di Vietri sul Mare, un negozio di ferramenta che gestiva con il figlio Ciro; un ferramenta che bisogna intendere come vendita di chiodi, «‘i puntine», viti e piastrine metalliche, per intenderci, e piccoli altri oggetti del settore: non era certamente un ferramenta come lo si intende oggi. Orbene Mariettella durante tutto l’anno conservava le scatole di cartone con le quali le arrivava la merce in negozio. Poi, come iniziava settembre, si sedeva avanti a un piccolo banchetto nel suo negozio e cominciava a ritagliare e incollare quei cartoni per farne casette: la parte liscia era per le pareti e quella ondulata era per i tetti. Poche lire costavano quelle casette e il loro prezzo variava per dimensione e per decorazione. Tutti andavano da Marietta a comprare le casette di cartone per il presepe di casa. Così come a Salerno tutti andavano al Vicolo Giudaica, il vicolo dei Giudìa, nella bottega di Fortunata Notini a comprare un pastore, di varia grandezza, a rispetto delle prospettive presepiali, e tutti rigorosamente decorati con colori a freddo. Zi’ Fortuna, come molti la chiamavano, era donna minuta, dall’indole buona e gentile, capelli d’argento a corona di faccia rugata dove brillavano piccoli occhi ridenti. In un articolo del 1976 apparso su Casabella, l’antropologo Paolo Apolito scriveva: «Nella sua stanza-bottega Fortunata Notini (Russo) vive, lavora, cucina, mangia, accoglie la gente che va a trovarla … Il tavolo dove poggia i suoi manufatti, i suoi modelli, è il tavolo dove mangia, dove conserva il libro di preghiere, dove ha costruito l’altarino per i santi e i suoi morti. Il tavolo è il segno più visibile dell’integrazione delle sue attività… Quando si entra nella bottega di Zi’ Fortunata si coglie immediatamente la strutturazione dello spazio… Lei è seduta al centro, sotto la luce della lampadina…; accanto a lei, in posizione centrale, gli oggetti d’uso quotidiano e gli oggetti sacri. Ed è significativo che questo si colga già entrando… l’integrazione è tale perché è manifesta, aperta, è tale perché chi entra ne partecipa, ne entra a far parte». Donna Fortuna era una “pastorara”, una di quegli artigiani facenti parte di una categoria ormai scomparsa da queste parti. Per mesi Donna Fortuna, con le sue piccole ed agili mani, che col passare degli anni si raggrinzivano sempre più, prendeva la giusta quantità di creta e la pigiava negli stampi di gesso di varia grandezza per modellare i pastori da cuocere e poi decorare con colori a freddo, dando vita e respiro alle sue figurine per un presepe altrui. E tutti trovavano il pastore nuovo desiderato o il pastore da sostituire. Erano allineati sugli scaffali per tipologie e dimensioni; quelli in sovrannumero eran raccolti in cassette della frutta, quelle in sfoglia di legno non di plastica. E in queste cassette i suoi clienti trovarono i pastori desiderati quell’anno in cui scoppiò il piccolo, arrabattato fornetto di cottura: dovettero intervenire i pompieri, un fumo nero da asfissiare; e per fortuna non prese fuoco la pila di giornali che teneva lì dappresso per incartare i pastori, una confezione alla buona, ma piena di gestualità antica che sapeva di rapporti umani. Quando il Natale era trascorso, Donna Fortuna si dedicava a formare teste di gesso per marionette o restaurava statuine di santi e madonne del vicinato. «Fortunata Notini si appassì con paziente abbandono – ricordava Corradino Pellecchia – come una bella pianta che non riceve da tempo la sua razione d’acqua» e andò a raggiungere i suoi cari che l’avevano preceduta. Ma restò nella memoria di tanti come una di quelle statuine in gesso di sante vestite che si usava conservare sotto le campane di vetro a devozione di famiglia. Con l’avvento della plastica tutto quel mondo di pastori in terracotta decorati a freddo e di casette di cartone con i tagli a simulare porte e finestre, scomparve, come sono scomparsi, con l’arrivo delle autostrade, tanti piccoli paesi tagliati fuori dagli itinerari umani. A noi, piccoli sciocchi, i pastori in plastica, con i loro colori brillanti, sembrarono così belli di fronte a quelli in creta, con i colori a freddo, opachi! A lungo abbiamo rimpianto quei fragili pastori di creta e quelle casette di cartone… li abbiamo cercati con affannosa nostalgia tra gli antiquari o in qualche vecchia scatola di cartone dimenticata in qualche soffitta… quasi sempre inutilmente. Per fortuna e senza nostalgia, resta nella memoria il Natale di tempi che furono, quando esistevano i pastorari, gente semplice che modellava argilla a formare una Madonna, un S. Giuseppe, un Bambinello, e ancora un bue, un asinello o un Angelo osannante “Pace in terra agli uomini di buona volontà” per portare gioia nelle case altrui; i pochi guadagni ai pastorari servivano come una sorta di tredicesima, quando questa non esisteva: anche per loro, silenziosi operai delle mani, e le loro famiglie era d’obbligo un Natale…mangereccio, se mai senza panettone, ma con zeppole bollite e una cascata di struffoli mielati.