Di Olga Chieffi e
Alfonso Mauro
Il sigillo aureo della intensa tre-giorni d’incontri mattutini e concerti serali dedicata alla musica e al pensiero di Luigi Nono nel centenario dalla nascita, frutto di una ferace sinergia dell’associazione Dissonanzen con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale—è stato apposto dal direttore d’orchestra Marco Angius il quale ha tenuto una fitta lectio magistralis sull’interpretazione e la ri-produzione dell’opus magnum del compositore veneziano “Prometeo. Tragedia dell’ascolto”. Tra i massimi interpreti del contemporaneo (fama-nomea che ha, celiando, affermato d’aver inteso controbilanciare sempre, dedicandosi cospicuamente al Classico propriamente o impropriamente detto, con le numerose compagini del suo cursus honorum) il Maestro ha cercato fornire, nei tempi necessariamente ristretti, le coordinate minime indispensabili per la comprensione del contesto musicologico, della struttura interna (ispirazione, suddivisione, elementi di analisi dello spartito, organico, orchestrazione) della complessità filosofica (libretto- pastiche di Massimo Cacciari, rapporto con l’Antico e con la musica non contemporanea, natura, definizione e Poetica dell’opera), e dell’allestimento e della direzione (“isole musicali” all’interno d’ampio spazio, l’“arca” lignea realizzata ad hoc da Renzo Piano, il rimescolio di pubblico e performers, la necessità di diversi direttori e maestri del coro, l’istallazione di rampe e passerelle in sorta di “cantiere” in divenire) della colossale “azione sonora”-oratorio circa il titano eschileo, commissionata dalla Biennale musica di Venezia — prima esecuzione assoluta presso la chiesa di S. Lorenzo, 1984. Sullo sfondo, e in scorcio alla lezione, la scissione della simmetria tra segno e suono, il rapporto filosoficamente indagato tra spartito (e limiti dello stesso) ed esecuzione, e, dunque, della reinterpretazione “archeologico-museale” (nelle accezioni positiva e negativa, secondo opinione) del direttore-compositore in dialogo e agone con le fonti primarie e comprimarie, gli usi sedimentati da certe tradizioni esecutive quantunque brevi, e l’edizione critica — il tutto non scevro da un sana vis polemica ben atta a questo mirabilmente controverso filone del Contemporaneo. La lezione si è avvalsa del supporto di slide che meglio illustrassero la poderosa machina cerchio-nel-quadrato con arca a sua volta inscritta — la messinscena essendo in relazione allo spazio preciso di S. Lorenzo, forse uno dei limiti dell’opera — e che aprissero pregnanti quantunque brevi squarci sullo spartito e dunque su qualche elemento di Musicologia. Non semplice delimitare, nella comprensione di chi immagina l’allestimento, l’esperienza dell’ascolto dal vivo con diversi “eventi” e sorgenti sonore cangianti e riverberanti dal ppppppp al cataclismico, inusuali in alcune scelte strumentali, e “trattate” elettronicamente; ma, in più pregnante commento al lavorio, in occasione della riproposizione di quest’anno Angius ha inteso inamovibilmente (convincente la sua apologia, a lezione) restituire la responsabilità interpretativa del primo direttore (oggi egli stesso, ieri seconda bacchetta insieme a Claudio Abbado) sulla prassi esecutiva, con un risultato vivo, e che per presenza e demografia di pubblico ben farebbe sperare circa il mandare a repertorio di generi e sub-generi novecenteschi magari all’epoca sostenuti, anche economicamente, partiticamente. Qui una coda della lezione che vieppiù spronato i mai disattenti esperti ed amatori presenti — se non la più florida di spunti: i rischi di una periodizzazione di ier l’altro, massime per opere poliedriche e intenzionalmente labirintiche dalle quali ogni ascoltatore rechi a casa un’esperienza magari diametralmente diversa; il forse non risolto rapporto tra ciò che diremmo (sine ira et studio) moda e i revival tutti, dal Barocco agli avanguardismi e transavanguardismi, tra il vintage (già vintage?) e queste sorte di appassionanti archeologie industriali; il dissidio ora assolutamente dicotomico tra Musica come intrattenimento o dell’ “esserci” — e già diverse generazioni di compositori i quali, come Nono, intendono interagire con la società, rifuggendo una scrittura da “arredamento”, d’ambiente; la natura di una tale opera “nell’era della sua riproducibilità tecnica” per registrazioni, di prossima uscita, del revival veneziano di quest’anno — la stessa partitura annotata di Angius presto disponibile alla consultazione libera. Minotauro o Teseo di questo “labirinto sonoro” dove le diverse sorgenti sonore viaggiano in uno spazio acustico condiviso, generando un’interazione dinamica con il pubblico. La figura di Marco Angius emerge come fondamentale nella direzione dell’opera: il suo approccio non si limita a una prestazione tecnica, ma si concentra sull’interpretazione della drammaturgia acustica, favorendo un’esperienza che trascende la semplice visione scenica. Nono, quindi, sembra volere guidare il pubblico attraverso una riflessione sonora che evoca la specificità del contesto insinuando nella musica le atmosfere, i colori e i suoni che caratterizzano la vita cittadina. La lectio si è chiusa con domande e osservazioni, anche da chi ha seguito la diretta sulle piattaforme mediatiche, con il corale rammarico dell’impossibilità di proseguire ad libitum nel diletto di eviscerare viva materia da opera viva che presuma abbracciare epoche enormi dell’umanità, dal teogonico all’elettronico, dall’antieroe eponimo al pubblico immerso nella tragedia, dagli organici posti in chiasmo al pubblico del feedback loop, dall’ “happening” al Corale, dal/i singolo/i al Collettivo, andando a sviscerare il tema dell’ascolto in un’epoca in cui il panorama sociale e culturale è dominato da immagini e visibilità. Prometeo sembra invitare a “sentire” i silenzi della musica e del mondo, un ascolto totale e immersivo, che risulti difficile da trovare nella quotidianità moderna, poiché vuole cambiarla, ritornando alle origini e facendola ri-nascere. Luigi Nono, attraverso le sue riflessioni, ci invita a considerare il silenzio e la complessità delle relazioni sonore come un’esperienza fondamentale, capace di andare oltre la superficialità della comunicazione contemporanea. La musica e i suoni diventano metafore della solitudine e della libertà personale, permettendo all’ascoltatore di immergersi in un viaggio emotivo che porta a riflettere sull’essenza dell’essere e sull’importanza di saper ascoltare, non solo gli altri, ma anche se stessi in relazione a un contesto più ampio. Ogni suono embriaco si fa veicolo di emozioni, dove le sciabolate degli archi si trasformano in tangenti a un’idea di libertà, che si manifesta nella solitudine dell’ascoltatore. Le scorie di madrigali, che emergono e svaniscono con il susseguirsi delle battute, ci ricordano che la bellezza è spesso effimera, ma incredibilmente potente nel suo passaggio. In questo spazio sonoro, la solitudine non è solo assenza, ma un’opportunità di connessione profonda con l’arte e con se stessi. La performance diventa un viaggio, un’esperienza che trascende il tempo e lo spazio, invitando ciascun spettatore a trovare il proprio significato in quei momenti fugaci e gioiosi.