Di Nicola Russomando
Grande clamore mediatico hanno suscitato le affermazioni di papa Francesco sulla “frociaggine” che alligna nei Seminari. Affermazioni sorprendenti nell’autore di “Fiducia supplicans”, la dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede con cui si apriva – almeno in prima battuta – alle benedizioni delle coppie irregolari, anche dello stesso sesso. Salvo poi precisare, con una successiva nota di chiarimento, che ad essere benedette sono le singole persone e non le coppie, e per non più di quindici secondi. La recente affermazione di Francesco, fatta a porte chiuse davanti ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale, è rivelatoria di un atteggiamento radicato negli ambienti ecclesiastici in tema di omosessualità, e non esente da ipocrisia. È noto che il divieto di ammettere al sacerdozio persone omosessuali è ricondotto a tre condizioni tipiche: la pratica dell’omosessualità, la presenza di tendenze innate, l’adesione alle politiche gay. Se appare incontestabile l’inconciliabilità delle politiche gay con la morale della Chiesa sul presupposto che omosessuale e gay non sono sinonimi, se è evidente che la pratica di ogni forma di sesso svincolata dai suoi fini naturali appare non conforme alla morale cattolica e, sotto certi aspetti, addirittura idolatrica, la dizione di “tendenze innate” è quanto mai ambigua. A tale proposito, sarebbe il caso di distinguere tra sessualità, che è parte costitutiva dell’individuo, e genitalità che è l’esercizio della stessa. La sessualità non è componente accessoria di un individuo tale da poter essere messa tra parentesi, il cui equilibrio è condizione essenziale per la definizione della personalità soprattutto in un ambito, quello religioso, teso alla castità. È pur vero che al sacerdozio cattolico è richiesto il celibato secondo una tradizione della Chiesa che non è solo di tipo disciplinare, ma che trae origine dal modello sacerdotale per eccellenza, quello di Cristo. E su questo modello ai religiosi si richiede l’adesione ai consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza con un vincolo più stringente di quanto richiesto al clero secolare. L’obbligo del celibato non si traduce dunque in semplice astensione da legami coniugali, ma implica la castità come suo naturale sostrato. Sotto questo aspetto, nella formazione sacerdotale, la continenza sessuale non dovrebbe rappresentare una linea di discrimine tra eterosessuale e omosessuale in vista del conseguimento di un obiettivo comune. Tuttavia, la politica vigente nei Seminari, che alimenta una vera e propria caccia alle streghe a discapito dei più sprovveduti, induce aspiranti al sacerdozio dalle “innate tendenze omosessuali” a dissimularle, gettando così le basi di una divaricazione, se non di una dissociazione, della personalità all’origine di quelle “doppie vite” di scandalo nella Chiesa, materia di tante cronache pruriginose, assurte anche a dignità di libro-denuncia. L’attuale politica dei Seminari sembra ricalcare il clima dei colleges inglesi degli inizi del XX secolo, ben descritto da Edward M. Forster, dove si era soliti riportare le pagine omoerotiche della letteratura greca sotto l’epiteto del “vizio innominabile dei greci”. Salvo poi costituire quei colleges veri vivai di omosessuali, come insegna il gruppo di Bloomsbury. Tuttavia, “l’ambiguo malanno” del mondo antico, secondo la felice definizione di Eva Cantarella, teneva conto della complessità della natura umana pur con soluzioni che oggi confliggono con la sensibilità contemporanea. Una di queste era il rapporto tra un adulto e un adolescente, “erastés-eromenos”, concepito in età arcaica in termini di iniziazione sociale, come documentato dalla legislazione di Gortina sull’isola di Creta. Ad ogni modo, un rapporto di tipo pederastico di cui si trova traccia persino nel Vangelo. È il caso del centurione di Cafarnao, riportato in Matteo 8, 5-13, che chiede a Gesù la guarigione per il suo servo, gravemente malato. Qui i termini usati sono decisivi per l’inquadramento del contesto. Il testo originale greco per servo usa “pais”, che ha una gamma di significati oscillante tra figlio, ragazzo e schiavetto, puntualmente tradotto in latino con “puer”. Il “pais/puer” in parola non è un semplice schiavo: è uno schiavo in rapporti intimi con il suo padrone, – si presume- non per sua scelta. Qui quel che interessa è l’atteggiamento di Gesù, il quale si dimostra incline ad assecondare da subito la richiesta del soldato recandosi al capezzale del malato. È il centurione a protestare la sua indegnità a riceverlo sotto il suo tetto con parole così espressive della divinità di Cristo che la liturgia le adatta, in modo più o meno felice, al momento della comunione eucaristica: “Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. Chiara è la constatazione da parte di Gesù della fede del centurione, senza pari in tutto Israele, che consegue l’immediata guarigione del “pais” non come giustificazione di una condotta di vita, così come nell’episodio dell’adultera nel Vangelo di Giovanni, ma come risposta all’autentica manifestazione di fede, preludio alla conversione. La sortita di papa Francesco, invece, evidenzia una visione connotata di pregiudizi e poco incline a riconoscere la complessità della natura umana, mai riducibile a cliché, allo stesso modo di quanti, con la rivendicazione di diritti senza fondamento oggettivo, riducono la complessità ad una categoria sociopolitica. Una posizione sicuramente poco evangelica, difforme dall’esempio stesso di Gesù che non indagò sul tipo di rapporto tra centurione e servo, ma colse la professione di fede come espressione autentica dell’uomo a cospetto di Dio.