Alberto Cuomo
In copertina, tra il nero delle ciminiere, spunta nel disegno una coraggiosa, irriverente e sventolante bandiera rossa. È quella dei lavoratori e del loro sindacato di cui scrivono la storia, lungo le vicende politiche intercorse tra il dopoguerra e i giorni nostri, Fernando Argentino e Piero Lucia, dirigenti della Confederazione Generale Italiana del Lavoro dagli anni Settanta all’inizio del millennio. Il libro, molto bello e ricco di notizie, è “L’onda” edito per i tipi di Francesco D’Amato e, secondo quanto sottolineano gli autori, non vuole essere il pretesto per un’operazione nostalgica. Ma per quanto la scrittura sia fredda, distaccata, rivolta a non cedere alla passione o all’ostentazione del protagonismo sindacale nello sviluppo del paese mediante le azioni a supporto dei lavoratori, la nostalgia trapela, e non è certo un male, sia pure silenziosa, tra le pagine del testo. Emerge più esplicita nelle note che ricordano i vari attori, operai o dirigenti politici e sindacali, delle lotte per il lavoro e il riscatto del Mezzogiorno e dell’area salernitana. Già perché gli scioperi, i conflitti, non erano solo a salvaguardia dei lavoratori ma, mossi da una coscienza politica, avevano come stella polare il miglioramento delle condizioni di vita nel sud e nel paese, sino ad essere nella dialettica, talvolta anche violenta, con il padronato, di direzione per la stessa classe imprenditoriale. Come è opportuno per chi intraprende un quadro storiografico, non vi sono giudizi critici sulle persone, quanto sugli atteggiamenti politici e imprenditoriali. Il libro appare diviso in due più ampie parti, e la prima parte, che rileva gli eventi politici e la formazione, dopo il silenzio imposto dal fascismo, di un nuovo fronte sindacale, è intesa a definire il retroterra storico degli anni di fine millennio di cui si occupa la seconda e terza parte. La fase eroico-pionieristica della nostra città e del sindacato si direbbe sia, per gli autori, quella dell’industrializzazione di Salerno, cui si dedicò il sindaco, successivamente presidente dell’Isveimer (Istituto per lo Sviluppo economico dell’Italia meridionale) per ben 11 anni, Alfonso Menna. Nel quindicennio (1955-1970) di “don Alfonso” la città di Salerno passò, come viene sottolineato, da poco più di 50mila abitanti a oltre 150mila residenti e la critica alla politica dell’esponente democristiano è rivolta essenzialmente alla mancata definizione di un assetto della città che comportò una disordinata crescita urbana. In realtà a quel tempo non esisteva una vera legge urbanistica e oltretutto alla prima elezione Alfonso Menna dovette fronteggiare la forte destra che sopravviveva a Salerno costituita dal Partito Monarchico, vincitore a Napoli con Achille Lauro, e dal Movimento Sociale. Sindaco di minoranza, Menna si sosteneva, fautore del primo centrosinistra in Italia, con i voti dei socialisti e l’astensione dei comunisti. C’è da dire che Menna era in realtà sensibile al paesaggio e alla storia, tanto da adoperarsi per il restauro del castello Arechi, là dove il Partito Comunista, che lo sosteneva in maniera tacita, propendeva per una modernizzazione che passasse persino per lo sventramento del centro storico, di fatto iniziato con Gaspare Russo, come mostra l’edificio alle spalle di San Giovanniello sito nella piazza del Crocifisso essendo in linea con i palazzi di corso Vittorio Emanuele, in vista di una nuova strada da realizzare con l’allargamento di via Mercanti. La crisi del sindacato stretto tra il cosiddetto Sessantotto, che dietro lo slogan “studenti e operai uniti nella lotta” in realtà sfuggiva i partiti ufficiali della sinistra con il rivendicazionismo sindacale, e il terremoto dell’Ottanta che fece proseguire lo smantellamento dei centri produttivi in Campania, perdurerà sino ai giorni nostri e i due autori non lo nascondono certo. Anzi, proprio perché consapevoli della crisi il sindacato, il loro e la triplice, accrebbe, come viene detto nel libro, la lotta per il mantenimento dei livelli occupazionali. I sindacati già avevano conosciuto la rapina del sud da parte degli imprenditori del nord i quali avevano impiantato le loro aziende, anche a Salerno, tra il regalo dei suoli e i finanziamenti pubblici, a costo zero. Con il terremoto si ripropone un disegno già visto in passato e in sé non sbagliato, quello redatto da Piccinato per l’area napoletana, in cui si prevedeva lo spostamento nelle aree interne di aziende produttive onde incentivare lo spostamento delle popolazioni alle spalle del Vesuvio determinando la decompressione della fascia costiera. Un disegno che ha in effetti innescato linee alternative di urbanizzazione, tra Nola e Pomigliano d’Arco, e tuttavia in fine fallimentare. Imitando tale progetto con la definizione di nuovi poli produttivi nelle aree del cratere, i sindacati, secondo quanto è esposto nel libro, immginavano come sarebbe andata a finire: gli industriali avrebbero dismesso le loro aziende storiche con l’invio a casa dei contingenti operai, onde fruire ancora una volta di suoli gratuiti e finanziamenti statali per aziende farlocche da chiudere in tempi bravi. Di qui l’impossibile difesa dei livelli occupazionali che li vide perdenti. Il libro si conclude con un invito a proseguire la lotta per il riscatto del Mezzogiorno che appare ancora vivere le medesime contraddizioni del dopoguerra essendo “un contributo per una discussione e una riflessione proiettata alle necessità dell’oggi e del prossimo futuro… considerando la memoria di una storia straordinaria, vitale linfa da cui continuare ad attingere per ripartire nella costruzione di un’altra prospettiva per il Mezzogiorno e il paese intero.”