Di Olga Chieffi
Bohème è uno dei lavori teatrali più rappresentati al mondo, forse in testa ad ogni altro, sia drammatico che musicale. La storia è già di per se stessa così indovinata, che meglio non si potrebbe. I protagonisti sono giovani, quattro uomini e due donne: sappiamo che la loro esistenza, libera, ma precaria, piena soltanto di ideali e speranze, è quanto di più allettante per il cuore di un pubblico che ama fantasticare, amare e, infine, piangere sulle piccole delusioni (ma poi, quale sarebbe la differenza fra le piccole e le grandi?). Inoltre, ci sono situazioni divertenti e caricaturali che bilanciano quelle tristi e nostalgiche. Ad esempio, una delle due coppie di innamorati, Musetta (Sabina Puerértolas) e Marcello (Mario Cassi), fa spesso baruffa perché risalti meglio l’altra, Mimì-Rodolfo, che è il centro del dramma. L’ambientazione è ottima, sia all’interno della soffitta degli artisti e intellettuali, sia fuori, nella Parigi del Quartiere Latino. Daniel Oren ha inteso puntare le sue carte su questa partitura, tante volte rifiutata per timore di fallire: “E’ difficile fare male in Bohème – ha affermato il direttore Daniel Oren, che sarà sul podio dell’Orchestra Filarmonica Salernitana Giuseppe Verdi e delle masse corali preparate da Francesco Aliberti e delle voci bianche guidate da Silvana Noschese, ieri mattina in conferenza stampa – Puccini vi ha scritto tutto, musica, regia, emozioni, è tutto in partitura eppure, si sbaglia. Io ne ho cancellate tante fino a quando non mi venne proposta dall’opera di Roma che mise assieme me, Franco Zeffirelli, Mirella Freni e Francisco Araiza e accettai il cimento”. La Bohème si distingue dal Verismo, poiché è un “quotidiano”, che non ha nulla da spartire col naturalismo di Zola o di Verga. Non descrive, infatti, condizioni sociali sordide e degradate, non inscena malavitosi e proprio per questo diviene metafora di un tema universale e fuori dal tempo come la giovinezza, valido per intere generazioni di ogni epoca. Ecco perché, da più di un secolo l’opera continua ad attrarre, coinvolgere e commuovere il pubblico dei teatri di tutto il mondo. E lo fa anche per una musica di intatta freschezza, di qualità estetica talmente alta e con una drammaturgia così riuscita da resistere all’usura di lustri e lustri, come di allestimenti spesso inadeguati, sino alle cosiddette “spedizioni punitive”. Un’opera originale Bohème, e singolare per la capacità che ha Puccini di cogliere la realtà con gli occhi dell’immaginazione. Bohème è come uno specchio posto dinanzi al pubblico, cui si riflettono le ansie e i turbamenti, i batticuori e il senso del destino, in una situazione senza tempo che pone l’uomo dinanzi a se stesso. Nell’atto primo, l’incontro fra Rodolfo, che avrà la voce di Giovanni Sala e Mimì, il soprano del momento Mariangela Sicilia, dai clarinetti che preannunciano la donna mentre bussa alla porta, al suo do sopra i righi, abbracciato con il mi del tenore, in uno smateriato “fuori scena”, riesce ad incarnare, allo stato puro e con valenze universali, l’emozione dell’innamoramento. Se si muterà in sentimento non lo sappiamo ancora, ma questo poca importa perché la nostra immaginazione, i vissuti, i desideri sono già in moto. Con la grande novità di Bohème Puccini replica agli altri grandi lavori veristi, chiarendo subito, a sé e agli altri, che le sue strade sono diverse. Potranno anche incrociarsi con modi naturalistici, lambirli, interpretarli personalmente e “storicamente”, come appunto ne’ “Il tabarro”, o usarne spunti eccitati, ma sempre in modo originale, come in “Tosca”, dove “Scarpia il sadico” inaugura perversioni novecentesche e rinviando ad un colorito espressionista, ma sono altre vie e altre maniere di percorrerle. La Bohème è un capolavoro speciale ed irripetibile nel canto, nella vocalità che guarda affatto a Cavalleria Rusticana o Pagliacci ma alla lezione di Falstaff, il lavoro che ha cambiato la storia del teatro musicale. I rimandi a Falstaff stanno, ad esempio, nel dinamismo dell’azione, nell’avvicendarsi di comico e sentimentale, soprattutto in quell’imprimere alla più piccola cellula di parlato caratteri melodici, allargando la lezione dell’ultimo Verdi. Falstaffiane (“un’acciuga”, esemplarmente) sono anche certe mimesi suono-realtà, il fuoco con frizione di accordi, la pagina bianca di Rodolfo che non è in vena, figurata dai legni, le gocce d’acqua-pizzicati dei violini coi flauti raggrumati su Mimì svenuta, i fiocchi di neve-quinte vuote parallele, le celebrate Puccini Quinten, ossia il movimento di quinte discendenti con algidi flauti ed arpa. Mimì muore in Do minore con quel “Sono andati?” interamente basata su una struggente, scaltrita impeccabile tecnica di motivi di reminiscenza, incarnando la giovinezza che torna per l’ultima volta e irrimediabilmente svanisce in un pathos silenzioso insieme alla grande epopea romantica. “E’ solo la morte – ha continuato Mariangela Sicilia – che attraversa l’intera opera che si oppone ineluttabile all’ amore di Mimì e Rodolfo. I giovani bohemienne hanno da vivere l’istante, il caminetto è sciupone, arde, brucia, come loro che non pensano tanto appena racimolato qualche soldo di spenderlo nel Caffè più in di Parigi. Alla morte non ci si può pensare”. Regia come Puccini l’ha dettata per Kartaloff e il suo scenografo Alfredo Troisi, a completare il cast oltre due salernitani, Biagio Pizzuti nei panni di Schaunard e Paolo Gloriante in quelli di Parpignol, abbiamo l’obbligo di ritrovare il Colline di Carlo Striuli e il Benoit/Alcindoro di Angelo Nardinocchi, oltre Antonio Cappetta che sarà il Sergente dei doganieri, Alessandro Menduto un doganiere e Vincenzo Tremante un venditore ambulante. La vita nel finale è asciugata dal pizzicato degli archi, ma appena l’invenzione allarga a rosa la melodia e lo strumentale, all’ingresso di Mimì, il gelo mostra di aver stampato sui volti, sulle carni, il color mortis. Ci accorgeremo, allora “…con triste meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo travaglio/in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.