di Alberto Cuomo
L’attuale dibattito sul numero dei medici in Italia, sulla fuga dei laureati nelle scienze sanitarie e sulla rimodulazione dei modi di ingresso nella facoltà di medicina sino alla proposta di eliminazione del numero chiuso e, quindi, dei test di ammissione, coinvolge famiglie, studenti, medici e, con essi, il mondo della politica che, entrato in confusione, ha per ora rinviato di un mese, da febbraio a marzo, le prove Tolc Med. Purtroppo la politica, dopo aver rovinato la scuola, ha progressivamente sfasciato anche l’università, inventandosi nuovi improbabili corsi di studio, nuovi atenei nei centri più sperduti, nuove più semplici modalità di concorso ai fini dell’insegnamento. Quanto a medicina, gli studi erano in passato tanto severi che non vi era ragione per inventarsi il numero chiuso. La facilitazione dei corsi e l’alto numero di aspiranti ad una laurea che prometteva sicuri guadagni hanno indotto a chiudere le porte della facoltà, tanto più che il numero alto di studenti e laureati disturbava i primari universitari timorosi di una inflazione del titolo e di una perdita di domanda sul mercato professionale, con conseguente perdita di guadagni. L’aver inteso l’università, da parte dei nostri politici, non più quale luogo di ricerca e formazione intellettuale, quanto centro di apprendimento di tecniche a fini mercantili ha già depauperato i suoi studi, senza tuttavia farla pervenire al modello anglosassone che prevede la laurea non abbia titolo legale. Di qui l’illusione che l’accesso alla laurea, e particolarmente a quella in medicina che si ritiene produca minore concorrenza professionale, possa assicurare un futuro lavoro ben remunerato. In realtà, se oggi l’impreparazione degli studenti medi imporrebbe per tutte le facoltà un ulteriore esame di ingresso che non le varie maturità scolastiche, il numero chiuso ha favorito, a medicina, i baroni universitari i quali hanno trovato in esso un modo per selezionare già in entrata la classe medica. Liberalizzare l’accesso quindi? Semmai, all’inverso, chiudere gli accessi a tutte le facoltà! Se si vedono le domande dei test di ingresso, a medicina come ad architettura o veterinaria, uniche facoltà con odontoiatria a numero chiuso, si scopre che i test sono abbastanza facili sì che, qualora non si superino, veramente può dirsi non si è idonei agli studi cui si richiede di essere ammessi. La soluzione oggi, nella situazione deteriorata degli studi medi e universitari, è difficile e, certamente, mettere mano alla materia non è nelle capacità dell’attuale ministro la senatrice Anna Maria Bernini. E però bisognerebbe agire sull’intera configurazione dell’università italiana, ovvero sopprimere gli atenei decentrati, proseguire con test e numero determinato in tutte e le facoltà e ritornare ai concorsi nazionali per il reclutamento dei docenti comprimendo il potere dei cosiddetti baroni tanto più che le uniche “baronie” che persistono sono quelle della facoltà di medicina dove i primari medici universitari fanno incetta di risorse per la ricerca, scelgono i futuri specialisti e i futuri cattedratici, guadagnano un doppio stipendio, universitario e ospedaliero, oltre a praticare la libera professione in intra moenia, con vantaggi cioè che individuano una vera e propria casta. C’è da dire tuttavia che in Italia vi sono diverse caste, gruppi di persone che godono di privilegi, spesso immeritati, da fruire per tutta la vita. La più nota e costosa è quella dei politici. Essere votati in qualunque consesso rappresentativo, e particolarmente al senato o al parlamento, non determina solo stipendi vertiginosi, tra i più alti del globo, ma anche rendite di posizione garantite dagli altri colleghi, tanto più ai giorni nostri in cui gli eletti sono scelti tra un numero di candidati ristretto e predeterminato dai partiti in una falsa democrazia. Gli esempi sono molteplici. Si va dalle saghe familiari dei D’Alema, De Mita, De Luca, la famiglia Meloni e affini, ai singoli Prodi, Amato, Brunetta che conclusa la carriera politica sono assurti, per chi sa quale grazia ricevuta, ad incarichi prestigiosi con alti emolumenti. Il caso più eclatante è quello di Luigi Di Maio il quale dopo aver sistemato in posti pubblici di rango elevato i suoi amici di Pomigliano, dopo il tonfo alle elezioni, è stato nominato rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico, al fine di gestire le forniture energetiche per Bruxelles. Seguono quindi i notai e i magistrati, e, anche in questo caso, per qualche miracolo divino, la carriera vede la successione da genitore in figlio. Sebbene il notariato svolga una funzione meritoria, non appaiono plausibili le elevate parcelle per atti spesso di routine, così come non si giustificano gli elevati stipendi dei magistrati per una attività che non subisce valutazioni né dal punto di vista della qualità né da quello dell’efficienza. All’inizio degli anni settanta l’ingegnere Roberto Vacca pubblicò un testo di futurologia dal titolo “Il Medioevo prossimo venturo” dove si ipotizzava la regressione della civiltà, proiettata verso un mondo dominato dalla povertà e dalle malattie e percorso da lotte selvagge per la sopravvivenza. Le tesi furono liquidate come parascientifiche e catastrofiste, sebbene l’ingegnere avesse utilizzato metodi matematici, oggi si direbbe algoritmi, per convalidare l’assunto di una ciclicità della civiltà. Certo, il limite delle analisi di Vacca consisteva nell’aver guardato particolarmente all’Occidente, ma, se si considera che l’Italia è una sorta di laboratorio in cui si riflettono logiche globali, la presenza delle caste è il sintomo che veramente ci si avvia verso il Medioevo.