di Aldo Primicerio
Famiglia, lavoro, benessere, legalità, sicurezza, rispetto, pace. Quanti obiettivi abbiamo nella vita! E quasi sempre crediamo che raggiungerli dipenda semplicemente e solo dalle azioni. Azioni dei governi e dei politici, azioni dei governatori regionali e dei sindaci, azioni degli industriali, azioni dei professionisti, e ovviamente anche azioni di noi stessi. Ci nutriamo e viviamo nella cultura del fare, della materia, del produrre, del consumare. Ma poi, dopo mezzo secolo di azioni, di fatti, numeri e risultati di cui ci vantiamo, ecco accorgerci invece che deforestiamo, inquiniamo, distruggiamo l’ambiente, rapiniamo, stupriamo, discriminiamo, forniamo armi per uccidere e siamo sull’orlo della terza guerra mondiale. Altro che cambiamento! Ma perché mai succede tutto questo? Non siamo forse quotidianamente impegnati nel cambiare le cose, cambiare il mondo con le nostre azioni? Certo.
Abbiamo la cultura del fare, ma senza cambiare dentro
Ma il problema è che siamo noi che dentro non cambiamo. E’ il cambio culturale che non c’è. E quindi non c’è la cultura della famiglia, la cultura del lavoro, la cultura della convivenza sociale, del benessere e di tutti quegli obiettivi citati prima.
Se attraversiamo la strada dove ci pare, e non sulle strisce pedonali; o se siamo in bici ed usiamo le strisce restando in sella: o, peggio, se da pedoni attraversiamo con il rosso facendo imbestialire chi è in auto; oppure se, da autisti Sita Sud o Cstp o da comuni automobilisti, abusiamo del clacson solo per insofferenza o per avvertire di fare largo perché stiamo arrivando noi; od anche, se lasciamo l’auto in doppia fila e andiamo a fare la spesa, pensando, da stupidi, che basti lasciare accesi i doppi lampeggianti; o, infine, se aggiriamo la concessione di un Comune, ad es. quello di Salerno, dividendo un’insegna pubblicitaria luminosa in tre pezzi distanziati, mentre il Comune ha autorizzato 1 solo elemento monofacciale; tutto questo accade perché rispondiamo alla nostra esigenza del fare, ed in fretta, ma non alla cultura civica di cui evidentemente siamo totalmente sprovvisti.
Una lezione dai grandi della classicità. Aristotele e le tre armi per un progetto
Non basta quindi impegnarci nelle azioni? Evidentemente no. Incertezza, frammentarietà, mancanza di punti di riferimento ci impediscono di trovare una direzione, di metterci alla prova, di osare, di vincere la sfida della vita.
E qui – come spesso mi capita di scrivere e di ricordarlo a tutti noi – ci vengono in aiuto i grandi della Roma repubblicana o, in questo caso, dell’antica Grecia. Ed in particolare di Aristotele, filosofo, scienziato del IV secolo a.C., una delle menti più universali, innovative, prolifiche e influenti di tutti i tempi, e – diciamolo – anche una delle occasioni da noi sprecate nei nostri anni di liceo, perché – noi poco più adolescenti – intimiditi ed infastiditi dalla complessità spesso impermeabile della filosofia, noi a quell’età non fisiologicamente all’altezza di permearla. Perché è proprio lui, Aristotele, che 2500 anni fa crea il primo progetto di sviluppo per il cambiamento. E lo fa, come mirabilmente scrive Giulio Scaccia, indicandoci tre armi: il Telos, l’Eudaimonìa e l’Aretè.
Il Telos è lo scopo, il fine, l’obiettivo. Che ci obbliga a chiederci a cosa serve tutto quello che facciamo, dove voglio arrivare, quale direzione devo seguire. L’Eudaimonìa è letteralmente la buona sorte, la felicità, l’insieme delle strategie, del sapere e dei comportamenti con cui raggiungo i miei obiettivi, cioè il Telos. L’Aretè, infine, è la virtù, la forza d’animo, il vigore, le qualità, il coraggio, che ci consentono di raggiungere l’Eudaimonìa, e che ci guidano al Telos, lo scopo finale. Virtù e coraggio sono i pilastri di alcuni capolavori della cultura greca come l’Iliade e l’Odissea di Omero, o i Trecento di Leonida alle Termopili raccontati da Erodoto e Plutarco, e fatti rivivere da un memorabile film con Gerard Butler. Ma, se parliamo di coraggio, dobbiamo anche fare i conti con i nostri limiti. E con la paura. Contro la quale possiamo saggiare meglio le nostre capacità di guardarci dentro. Il coraggio ci serve non per rimuovere i nostri limiti, sarebbe impossibile, ma per imparare a sfidarli ed a fronteggiarli. Questa è una delle nostre virtù, quella di saper individuare e pesare i limiti che appartengono al nostro essere, e di saper affrontare il rischio, ad esempio quello di fallire un obiettivo. Perché non c’è crescita e progresso senza rischio. E quindi il coraggio ci occorre non per sconfiggere la paura – anche questo è impossibile – ma per poter pensare ed agire con le abilità necessarie, quindi con la cultura del coraggio, delle esperienze maturate, e dunque con una “cultura dell’azione”.
I fallimenti dell’umanità in mezzo secolo. Il rischio del collasso planetario entro fine secolo
Prima, in apertura, accennavamo al mezzo secolo di fallimenti dell’umanità, orgogliosa di avere compiuto azioni, di avere agito, ma senza risultati. La risposta è davanti ai nostri occhi, con le condizioni pietose in cui abbiamo ridotto il nostro pianeta, l’unico che abbiamo. Cosa potrebbe accadere nella seconda metà di questo secolo? Che la popolazione mondiale crolli, la società umana ed animale collassi, ed il miliardo di sopravvissuti dei circa 8 torni a vivere come durante l’l’Età della Pietra. Uno scenario terrificante, speriamo improbabile, ma purtroppo possibile. Lo descrive, su Focus, William Rees, bio-ecologista, ecologista economico, professore nella British Columbia University a Vancouver in Canada. L’inizio dello sfruttamento dei combustibili fossili – sostiene Rees – ha permesso un aumento di cibo e risorse, scatenando una conseguente crescita esponenziale della popolazione mondiale, che negli ultimi 200 anni è passata da uno a otto miliardi. Abbiamo adottato uno stile di vita autosabotante, in cui le risorse finite che hanno permesso alla nostra società industriale di prosperare prima o poi saranno insufficienti. La fine delle risorse e il conseguente calo della popolazione – prosegue Rees – potrebbe essere problematico: miseria, disoccupazione diffusa, crollo del PIL, crollo degli stipendi, servizi sociali sovraccarichi e catene di fornitura interrotte sono alcune delle conseguenze a cui potremmo andare incontro. Nell’ipotesi peggiore, l’intera società potrebbe collassare.
Una visione quindi tutt’altro che ottimistica o possibilista, quella di Rees. Dobbiamo allora preoccuparci del rischio di un’estinzione? A noi stessi rispondiamo di no. Quella di una collasso planetario è una eventualità possibile, ma anche non probabile. Le tecnologie ed i progressi raggiunti dovrebbero aiutarci. Eppure, se ci guardiamo intorno, la preoccupazione c’è. Il caos climatico, la mancanza o la iniqua distribuzione di cibo e acqua, il crescente disordine civile, le folli decisioni di molti governi, compreso il nostro, di fornire le armi all’Ucraina convinti così di favorire la pace e non il rischio di un conflitto nucleare, le guerre per le risorse. Tutto questo congiura contro l’affermazione di ua società civile avanzata, equilibrata, pacifica, giusta.