Dal 25 marzo scorso l’accesso per i veicoli alla Badia di Cava dei Tirreni è interdetto da uno “scoscendimento di terreno”, come si legge nell’ordinanza n. 15 di chiusura della strada emessa dal sindaco Servalli all’indomani dello smottamento, senza che ad oggi, si siano registrati fatti concludenti per la risoluzione del grave inconveniente. In pratica, la strada provinciale n. 67, ex SR 18 ter, unica via di accesso veicolare all’abbazia benedettina, resta ingombra di detriti e terreno venuti giù da un’altezza considerevole, ovvero da terrapieni che costituiscono giardini di proprietà private, ricavati dalle mura medievali di cinta, che formavano il bastione del corpo amministrativo della congregazione cavense, all’epoca ramificata in tutto il Mezzogiorno d’Italia. Da qui il nome “Corpo di Cava” per l’omonima frazione. Mura antiche sì ma gravate da moderno cordolo di cemento e insidiate da vegetazione spontanea, particolarmente pervasiva.
Ed è proprio nell’intreccio pubblico-privato che si annidano tutti i nodi irrisolti della questione. Come si legge nell’ordinanza sindacale, al 27 di marzo la proprietà privata aveva manifestato “la volontà di procedere direttamente all’esecuzione dei necessari urgenti lavori consistenti innanzitutto nella messa in sicurezza del terrapieno e nella completa pulizia della sede stradale con la rimozione dei pezzi di muratura e della quantità del terreno caduto”. Tale volontà presupponeva il riconoscimento di un titolo di responsabilità derivante dalla stessa proprietà, tanto più che nell’ordinanza, all’atto della ricognizione della disponibilità dei proprietari, si precisava che “se i lavori fossero eseguiti dall’ente (il Comune ndr.), sarebbero comunque addebitati alla proprietà”. È la cosiddetta procedura in danno per cui poi l’ente pubblico fa rivalsa sull’obbligato con ogni aggravio di spesa. Questa determinazione è poi venuta meno a seguito di un ricorso in sede amministrativa promosso dalla stessa proprietà che ha congelato, verosimilmente con la sospensiva della vincolatività, l’ordine di provvedere ad horas a “effettuare interventi immediati di messa in sicurezza della frana; a predisporre e realizzare ogni altra opera necessaria per assicurare la pubblica e privata incolumità”.Attore del contendere, oltre ai privati e al Comune, è anche la Provincia, quale ente proprietario della strada, che, tuttavia eccepisce la propria incompetenza in ordine al fatto causativo della frana per cui potrebbe configurarsi come parte danneggiata in quanto il muro crollato non rientrerebbe nell’area di proprietà della strada. Al di là di quelli che sono i profili e gli sviluppi di un intricato percorso legale, costellato di competenze e di responsabilità, resta il fatto sconcertante che la Badia di Cava da oltre un mese non è raggiungibile per la via ordinaria e che l’unica strada di accesso è una cordonata, peraltro sdrucciolevole e sconnessa nella sua pavimentazione, che dà sbocco ad un suggestivo ma gravoso percorso pedonale attraverso tutto l’abitato del Corpo di Cava. Superfluo sottolineare che ciò costituisce un serio impedimento per i fedeli a raggiungere la basilica, come si è constatato per i riti della Settimana Santa, ma è anche un ostacolo per gli studiosi che frequentano biblioteca e archivio dell’abbazia, tra i più importanti d’Europa, e per i turisti che in frotte la visitavano. Ma i veri danneggiati sono i componenti della Comunità monastica, quei monaci a cui da tanto tempo viene imposto, senza concorso della loro volontà, di tollerare tale situazione. Se nel perdurare degli effetti del crollo potesse ravvisarsi una qualche forma di violenza anche indiretta, la qualificazione condurrebbe all’ipotesi di reato di violenza privata. La carità dei monaci, lungi dal far leva sul codice penale, attende un intervento risolutorio che restituisca dignità ad un complesso storico-religioso per cui pure si chiedeva l’iscrizione al catalogo UNESCO. Ne va anche del prestigio dei beni culturali della nazione italiana.
Nicola Russomando