La luce dei cieli dorati e dei tramonti infuocati di Roma, la quiete di paesaggi marini ancora incontaminati sono temi cari al pittore-violinista ternano Carlo Quaglia (1903-1970). Vengono ora riproposti a Salerno, fino a martedì 20 maggio 2014, presso la galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta, in un’interessante retrospettiva, curata in collaborazione con l’Archivio Carlo Quaglia, che comprende circa trenta opere tra olii e disegni. Nella ricca gamma cromatica, sempre ben accordata, e nella magia dell’atmosfera, calma e misteriosa, resa mediante ampie e morbide pennellate, si riconosce la lezione di quella Scuola romana fondata da Mario Mafai, Antonietta Raphaël, “Scipione” (Gino Bonichi) e Fausto Pirandello e altri, la quale contrappose il carattere espressionista che accomunava i suoi esponenti al neoclassicismo in voga nell’Italia del primo dopoguerra e, grazie all’apporto di nuove leve, estese la sua attività fino al secondo, epoca in cui prese le mosse la tardiva ma significativa carriera di Quaglia, dopo i primi esperimenti condotti durante la prigionia in India, alle pendici dell‘Himalaya. Nel farsi artista, dunque, da estimatore d’arte contemporanea quale era, Quaglia imparò a dosare gli intensi rossi scipioneschi, l’amore per le borgate e le periferie di Mafai, le suggestioni chagalliane di Raphaël e così via nella costruzione del proprio linguaggio. Ciò che ne risulta non è la descrizione o la narrazione di quanto l’artista vide, ma l’emozione che quella tal cosa o il ricordo di essa suscitò in lui, trasposta nel colore: un colore spesso disposto per campiture, ciascuna delle quali è naturalmente individuata da una dominante cromatica, ma vibra per la fitta gamma di sfumature, restituendo allo sguardo la vividezza del contesto reale. Questi scenari urbani e rivieraschi, volutamente sgombri di presenze umane, che in genere vengono tutt’al più evocate nella rappresentazione di sculture o altri ornamenti di auguste dimore, sembrano pensati per essere abitati dall’anima: quella dell’artista, in primo luogo, il quale forse trovò più volte un sicuro rifugio, soprattutto nei momenti più drammatici della sua esistenza, prima nelle opere altrui, poi nelle proprie.
AristideFiore