di Marcello Murolo*
L’intervento di Luigi Celestre Angrisani pubblicato su questo giornale lo scorso 27 marzo relativo alla vera e propria “giungla retributiva” creatasi nel settore della sanità privata, accende i riflettori su un fenomeno da non sottovalutare, e che si presta a diventare, in mancanza di prese di posizione decise, un precedente pericoloso per il mondo del lavoro e per gli operatori del diritto che di tale mondo si interessano. Proviamo a riassumere. I rapporti di lavoro delle Case di Cura Private (come accade per ogni altro settore produttivo) sono regolati da un contratto collettivo nazionale, stipulato dalle associazioni di categoria dei lavoratori e degli imprenditori “comparativamente più rappresentative” nel settore. Infatti, il legislatore costituente, conformandosi a modelli affermatisi in molti paesi europei nel periodo fra le due guerre, rimise alle parti sociali (cioè ai sindacati dei lavoratori e alle associazioni degli imprenditori) il compito di dettare la disciplina dei rapporti di lavoro dipendente, ritenendo che solo dal confronto fra queste ultime potesse derivare un assetto contrattuale in grado di mediare tra le varie posizioni e di tener conto di tutti gli interessi in campo. Unico (ma fondamentale) requisito: i contratti collettivi di lavoro, per essere considerati veramente tali, dovevano essere stipulati tra associazioni realmente rappresentative, da un punto di vista sociale, sindacale e politico, delle categorie delle quali assumevano la rappresentanza (e quindi la tutela). È questo il motivo per il quale nella maggior parte dei casi i contratti collettivi venivano (e vengono) stipulati da un lato da quella che una volta si chiamava “la triplice” (CGIL – CISL e UIL), e dall’altro dalle organizzazioni dei datori di lavoro che raggruppano la maggioranza degli operatori economici del settore: tipicamente, Confindustria nel caso del settore industriale e manifatturiero, Confcommercio o Federcommercio nel caso dei settori della distribuzione commerciale, e via dicendo. Nel caso della sanità privata, che è l’ambito al quale si riferisce il discorso che stiamo facendo, le organizzazioni che raggruppano la maggior parte degli imprenditori della sanità, e senza dubbio i maggiori fra loro, sono la AIOP (Associazione Italiana Spedalità Privata) e la ARIS (Associazione Religiosa Istituti Socio-sanitari) che costituiscono quindi, per così dire, le “confindustrie” del settore.
Ora, da un punto di vista di stretto diritto, i contratti collettivi dei quali stiamo parlando (a differenza di quanto accadeva, p. es., durante il fascismo) non hanno una vera e propria forza di legge, e quindi a rigore per i datori di lavoro non c’è un obbligo inderogabile di applicarli. A garantire la tenuta del sistema vi era però (e vi è tutt’ora) una semplice norma della Costituzione, l’art. 36, il quale dispone che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In base a questa norma qualsiasi lavoratore dipendente può rivolgersi al giudice del lavoro chiedendogli di verificare se il trattamento economico che riceve per il suo lavoro sia, per l’appunto, adeguato “alla quantità e qualità del lavoro prestato”: e il giudice compirà questa verifica confrontando il trattamento erogato al lavoratore con quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro dei quali si è detto, e farà questo non solo con riferimento alla retribuzione in senso stretto, ma anche ad altri istituti, come l’orario di lavoro, il numero di giorni di ferie, ecc. In questo modo, sia pure in maniera indiretta, i contratti collettivi assumono forza di legge, in quanto sono il parametro che i giudici devono adottare per decidere se i lavoratori hanno percepito o meno tutto quanto gli spettava. Ma attenzione: il contratto di lavoro che il giudice applicherà sarà solo quello stipulato, per ciascun settore economico, dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, e non altri.
È importante ricordare anche che, proprio per incentivare l’applicazione integrale dei contratti di lavoro “genuini” e per promuovere migliori condizioni di lavoro (che in ultima analisi sono migliori condizioni della società nel suo complesso), da più di quaranta anni il legislatore nazionale ha adottato una serie di norme indirizzate ad imporre ai datori di lavoro l’applicazione dei contratti collettivi nazionali dei quali abbiamo appena parlato. L’esempio tipico è quello dell’art. 36 dello Statuto dei Lavoratori, il quale stabilisce che tanto nei provvedimenti di concessione di benefici in favore degli imprenditori, quanto nei contratti che affidano in appalto opere pubbliche, “deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona”. È per tale motivo che, per esempio, tutti i provvedimenti legislativi succedutisi per decenni che hanno previsto la concessione di sgravi contributivi in favore di chi effettuasse nuove assunzioni, o che hanno introdotto nell’ordinamento contratti agevolati quali i contratti di formazione al lavoro o di apprendistato, hanno sempre istituito l’obbligo per il datore di lavoro (pena la perdita delle agevolazioni) di applicare i contratti collettivi stipulati, per il settore in cui veniva svolta l’attività, dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, e lo stesso obbligo veniva (e viene) imposto a qualsiasi imprenditore assuma l’appalto di opere o di servizi per conto dello stato e della pubblica amministrazione.
Il fatto che nel settore della sanità privata vengano applicati contratti diversi da quello nazionale di categoria, e che alla pubblica amministrazione venga in qualche modo richiesto di sanzionare tale applicazione (sia pure sotto il pretesto strumentale e fuori luogo del risparmio di spesa), è quindi un dato assolutamente “fuori sistema”, che contrasta con la legislazione positiva e, soprattutto, si pone in conflitto aperto con il dettato e le finalità dell’art 36 della Costituzione. Esso, inoltre, potrebbe essere il segnale di una grave degenerazione del settore delle relazioni sindacali, e del concetto stesso di welfare come l’abbiamo finora conosciuto.
Se infatti a livello amministrativo venissero riconosciuti gli effetti di contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali e di categorie di dubbia rappresentatività (quando non di dubbia genuinità), si incentiverebbe ancora di più una corsa al ribasso che oramai ha luogo da anni, e che è finalizzata unicamente alla compressione dei salari e delle tutele dei lavoratori, invece che (per come dovrebbe essere) ad incrementi della produttività e della efficienza della prestazione. Ancor più grave è che questo accada nel settore dell’assistenza ai disabili: non c’è bisogno di molte spiegazioni per comprendere cosa può accadere in un settore così delicato laddove passasse il principio che “l’assistenza meno si paga e meglio è”, né per capire quale possa essere la qualità dell’assistenza garantita a soggetti con minorazioni da datori di lavoro che, come prima cosa, si preoccupano di pagare i propri dipendenti (infermieri, assistenti specialistici, terapisti della riabilitazione, ecc.) il meno possibile, inventandosi in maniera funambolica l’applicabilità di contratti di lavoro che con il mondo della sanità non c’entrano niente.
C’è poi un altro aspetto che – mi permetto di dire – forse non è stato sufficientemente considerato dai sostenitori della corsa al ribasso e che invece deve essere tenuto ben presente, soprattutto da chi è chiamato a fare le scelte politico-amministrative in materia. Mi riferisco cioè (e dovrebbe essere chiaro da quanto si è detto prima) alla sostanziale illusorietà dell’intero meccanismo escogitato.
Come si è fatto osservare, ciascun lavoratore può rivolgersi al giudice del lavoro per chiedere di verificare la congruità del proprio trattamento retributivo e l’adeguamento dello stesso ai contratti nazionali di categoria. Si è detto pure che, in questi casi, il giudice interpellato applicherà, per forza di cose, i contratti del settore sanità stipulati dalla CGIL, dalla CISL e dalla UIL da una parte e dalla AIOP e dall’ARIS dall’altra, condannando i datori di lavoro a pagare le relative differenze economiche. Si tratta di una sorta di meccanismo ad orologeria che col tempo diventerà attuale in maniera massiva e probabilmente generalizzata: prima o poi i lavoratori della sanità, costretti loro malgrado ad accettare l’applicazione di contratti collettivi diversi da quello rappresentativo del proprio settore, reagiranno, individualmente o a livello organizzato, e introdurranno un contenzioso del quale è facile immaginare sia le dimensioni che le conseguenze. Insomma, la strada prescelta da alcuni operatori del settore è, oltre che sbagliata, inutile. Fare affidamento su di essa per far quadrare i conti delle singole aziende o dell’intero comparto potrebbe risultare una pericolosa illusione. * avvocato del lavoro
In agguato gravi e diffusi contenziosi con effetti destabilizzanti