di Olga Chieffi
Parterre de roy, giovedì sera, sulla tribunetta del Ravello Festival, per la prima delle due serate dell’Omaggio ad Enrico Caruso nell’anno celebrativo del centenario della scomparsa. Vincenzo De Luca, ha inteso godere delle bellezze naturali e musicali di una serata davvero incantata, illuminata da una mezzaluna rossa e alla fonda, a largo di Amalfi, il Christina O, il famigerato yacht di Aristotele Onassis, che ha evocato il fantasma di Maria Callas. Il governatore è stato accolto dal neo-presidente della Fondazione Ravello Dino Falconio, in smoking panna “fuori ordinanza”, e ancora, ospiti illustri per Florez, quali l’on. Fulvio Martusciello e l’ex procuratore nazionale antimafia e attuale eurodeputato, Franco Roberti. Prima del concerto, nei giardini di Villa Rufolo, è stato lo stesso Enrico Caruso a rivelarsi al pubblico, attraverso la diffusione della sua voce, in ogni angolo del belvedere, un ricordo della sua felice intuizione di affidarsi a quella discriminante del secolo breve che fu il disco, l’incisione. La sensazione che prova chiunque ascolti Juan Diego è quella che la facilità e spontaneità con cui la voce gli sgorga, crei una bellissima, luminosa aurea, che gli incastona il sole nel suo naturale strumento. Spontaneità che provengono da una tecnica prodigiosa, o quanto meno si alleano ad essa. Che poi questa tecnica sia stata istintivamente acquisita, come certe cose fanno credere, o attraverso l’insegnamento altrui, lo studio, la riflessione personale, l’esercizio e la forza di volontà, come altre inducono a pensare e come con più forte probabilità dev’essere, è un diverso problema. Juan Diego conserva ai nostri occhi quell’aspetto di beniamino degli dèi, al quale tutto è per grazia innata concesso. Ars est celare artem. Nel canto, ancor più che nella musica strumentale, il giusto e naturale fraseggio musicale nasce soprattutto da fattori fisici di respirazione e di emissione della voce; così come la melodia vocale, in tutti i grandi compositori, si genera intimamente, legata alla sistole e alla diastole, alla tenuta di fiato, all’inspirazione e all’espirazione: ecco perché le interpretazioni del nostro eroe finiscono per essere spesso una lezione di gusto musicale: intendendosi con questo la retta pronuncia della frase musicale. Anche qui, occorre non farsi soverchiare, nel giudizio, dal particolare: è fin troppo facile mettere in evidenza qualche “corona” e qualche indugio di troppo che tendono a spezzare il nucleo della frase musicale. Il programma canoro è principiato con la celebre aria dell’ “Elisir d’amore” “Una furtiva lacrima”, introdotta dall’ouverture del Don Pasquale. Questa l’aria del primo Caruso del qui pro quo del Teatro San Carlo, restato nella storia per colpa degli animali dalle lunghe orecchie, immortalati da Camille Saint Saens nel “Carnaval des animaux”. Si è continuato con il Lord Edgardo Ashton, delle “Tombe degli Avi miei… Fra poco a me ricovero”, dall’ultimo atto della Lucia di Lammermoor, l’Intermezzo dalla Carmen di Bizet, che ha vissuto della bellezza intensa del suono e del velluto di Bernard Labiausse, prima del ritorno in scena di Florez, insieme al soprano Marina Monzò, per il Gounod di Romèo et Juliette, in cui più nulla può trarre, dalle formule obbligate del virtuosismo canoro che è portato qui alle sue estreme conseguenze, ma appare però sempre condizionato all’architettura musicale che si determina in una costante unitaria fra voce e discorso drammatico dell’orchestra, finemente colto da Nikolas Nagele, alla testa dell’orchestra del Teatro San Carlo. Quindi il momento napoletano, popolar carusiano, ma giocato con grande equilibrio, senza eccessi, “Core ‘ngrato”,”’O sole mio” e “Torna a Surriento”. Ancora un intermezzo, stavolta quello di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, che non è andato oltre la dignitosa esecuzione. Poi, il Puccioni della Bohème del finale I quadro. Con la Monzò che è riuscita ad apportare l’intensa, semplice ma tutt’altro che semplicistica umanità ragione ideale di Mimì, che vuol essere sottolineata da un canto vibrante, luminoso, di raggiante purezza, e Juan Diego Florez che ha interpretato Rodolfo con bella voce e gradevole il fraseggio in “Che gelida manina” e “O soave fanciulla”. Generosissimo il bis che ha visto il tenore imbracciare la chitarra e cantare “Parlami d’amore Mariù”, “Basame Mucho” e “Paloma”. Ovazione e ancora “Granada”, la zarzuela “Me llamabas Rafaelillo” e gran finale con “Nessun dorma”. Applausi scroscianti per tutti, ricambiati dall’entusiasmo e dalla assoluta modestia e umiltà che appartiene solo ai grandissimi, tra cui non abbiamo remora di annoverare Juan Diego Florez.